Gianfranco Dioguardi - Una fede disperata nella parola

Mi sovvengono i silenzi con i quali Leonardo Sciascia strutturava il suo discorrere. Erano meccanismi che gli consentivano di porgere il suo pensiero attraverso l'essenzialità delle frasi costruite con una sapiente capacità di sintesi.
Ma erano quei silenzi, anche un atto di estremo rispetto per l'interlocutore. Li metteva lì per consentirgli di meditare e assimilare quelle sue frasi con coerenza attenta.
Arte del tacere come stimolo, per migliorare quella del meditare del cui uso si aveva grande necessità nel discorrere con Sciascia: la complessità del suo pensiero si manifestava attraverso un'articolazione di significati che andava sempre oltre il semplice senso letterale e immediato.
Non diversamente accade nei suoi scritti, dove la storia - la trama - costituisce la robusta impalcatura che sorregge la fabbrica del pensiero espresso con una secchezza di linguaggio all'interno del quale ogni segno diviene essenziale e inamovibile dalla sua collocazione intensamente soppesata. Leggendo le storie di Leonardo Sciascia si è spinti al ripensamento e quindi in una complessa azione di analisi che dalle parole si estende alla frase allo scopo di trarre dalle specifiche collocazioni simboliche precise connotazioni concettuali.
Tutto ciò senza mai nulla sottrarre al fascino del racconto che si dipana sempre intrigante anche grazie agli elementi di mistero che sapientemente, e tipicamente, lo ritmano.
Quel mistero che rappresentava, per Sciascia, il momento interpretativo più singolare del mestiere di vivere, riletto attraverso l'uso attento della ragione. Ciò spiega il suo amore per l'illuminismo e per il secolo che lo manifesta. Ma l'intelligenza era sempre siciliana, troppo esperta di vita  e di uomini per non rendersi conto delle limitazioni intrinseche allo strumento del ragionamento, e dunque della necessità di inchinarsi al cospetto del mistero che diviene così elemento di naturale completamento delle manchevolezze della ragione.
Ricordo come i suoi silenzi fossero sovente accarezzati dal fumo delle sigarette che con costanza - anch'essa siciliana – consumava metodicamente, con grazia, senza l'atteggiamento ansioso e sgarbato che di solito l'incallito fumatore assume nei confronti del proprio vizio.
Questo suo modo di affrontare con metodica e graziosa costanza i pericoli che il fumo promette testimoniavano il rispetto che egli nutriva istintivamente verso le insidie che necessariamente la vita reca in seno. Ancora un senso di mesto rispetto si avvertiva per il mistero che circonda gli eventi fondamentali che la caratterizzano: la nascita, la morte. In particolare proprio il senso della morte, ineluttabile segno del destino, lo affascinava maggiormente. Realtà inconfutabile a cui abbandonarsi, appunto con grazia, senza intraprendere alcuna illogica, impossibile battaglia. E ciò pare trasparire da quasi tutte le più importanti opere di Leonardo Sciascia.
Mi sovvengono gli incontri, per me infrequenti ma densi di significati e di insegnamenti, quindi caratterizzati da attese lunghe, che finivano per assumere il senso e la funzione del silenzio nel dialogo. Erano momenti di pausa capaci di costruire, proprio nell'ansia e nell'attesa del nuovo incontro, armonie non dissimili da quelle che per esempio Schonberg e il nostro Luigi Nono propongono nelle loro reinterpretazioni della moderna composizione musicale.
Il lento trascorrere dei giorni precedenti l'incontro, finiva con l'imporsi come una spinta alla meditazione sui temi delle precedenti conversazioni, e attraverso essa si ergeva la struttura per le interrogazioni che avrebbero segnato il successivo incontro. Le attese venivano spesso interrotte e punteggiate da telefonate o da lettere anch'esse molto brevi, ed essenziali, perché sempre in Sciascia il rigore logico nell'espressione del proprio pensiero sembrava segnalare e asserire il massimo rispetto per la parola.
Parola capace di assumere, in quanto tale, importanza ancora maggiore del fatto che rappresentava. In questo senso ritengo che Leonardo Sciascia sia stato il migliore interprete dell'affermazione di Joseph Roth, “...le parole sono più potenti delle azioni... quanto sono deboli i fatti. Una parola rimane, un fatto passa! di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata solo da un uomo”.

Ricordo di averlo conosciuto in occasione della pubblicazione del mio primo libro, con il quale affrontavo divagazioni di carattere storico. Lesse infatti il manoscritto di Un avventuriero nella Napoli del Settecento che avevo proposto a Elvira Sellerio e mi volle regalare una splendida introduzione che sottolineava gli aspetti casanoviani della vicenda. Così ebbe modo di spiegarmi più da vicino il fascino del Settecento dolcemente abbandonato alle interpretazioni che di esso davano avventurieri grandi o meno grandi, sempre però intellettualmente stimolanti, come Casanova o Ange Goudar.
Mi segnalò, in quella occasione, affinché la meditassi, una fondamentale affermazione di Hermann Hesse tratta da Letture da un minuto: “I libri non esistono per rendere sempre meno autonomo chi non ha carattere, e ancor meno esistono per elargire un raffinato e illusorio surrogato della vita a chi è incapace di vivere. Al contrario i libri hanno valore soltanto se conducono alla vita, se servono e giovano alla vita, ed è sprecata ogni ora di lettura dalla quale non venga al lettore una scintilla di forza, un presagio di nuova giovinezza, un alito di nuova freschezza”.
Quest'affermazione - mi diceva - dovrebbe costituire una costante linea di guida per chi affronta il faticoso mestiere dello scrittore.
Il ricordo di allora si rinvigorisce e la tristezza di oggi si stempera nella rilettura delle sue opere. I suoi grandi libri erano sempre di piccolo formato e il fatto enfatizza, attraverso il meccanismo degli opposti, l'importanza dei contenuti così come emerge da un'analisi necessariamente approfondita e mai superficiale che il lettore deve compiere sui singoli argomenti, sulle singole frasi, sulle singole parole.
Così si comprende come ciascuno di questi elementi fosse oggetto di profondi, fecondi ripensamenti. Sono, quelli di Sciascia, testi da scoprire pian piano, perché sanno sollecitare la curiosità culturale che l'intrigo del racconto rende ancor più stimolante.
Lo specifico argomento dei libri, lo stile che li informa, la sintesi del pensiero, le argomentazioni che impetuose dal racconto emergono, sono tutti elementi che armonicamente si fondono in un grande senso di civiltà , quello stesso che Sciascia viveva come fatto saliente ed essenziale della vita. D'altra parte, proprio in quanto cronista attento, era costretto a registrare il quotidiano dissolvimento del comune senso civile, e il suo rammarico si tramutava nell'angoscia che, alle volte, dai suoi scritti emerge come una sentenza.
Allora la necessità di rigenerarsi lo spirito lo spingeva a rincorrere gli accadimenti del passato fuggendo il presente, per tornarci poi immediatamente dopo aver colto dalla storia occasione per restituire all'attualità messaggi di straordinaria civiltà .
Parimenti la cronaca attuale veniva affrontata da Sciascia come oggetto da condurre immediatamente nella dimensione della grande storia, quella su cui rimeditare con occhi capaci di anticipare i tempi, che è la caratteristica dei supremi interpreti dell'evento artistico.
E' proprio per questo suo amore per la storia che con Elvira Sellerio inventò la preziosa collana La memoria”, che aprirà con un suo libro, Dalle parti degli infedeli.
Fra i fatti del vivere civile lo intrigavano particolarmente i processi e la figura enigmatica del giudice.
Nel suo 1912 + 1 aveva scritto: “Se si togliessero le illazioni dei testi e il sentito dire, i processi che si fanno oggi in Italia crollerebbero come castelli di carta”. Lo tormentava il processo, dunque, evento fra i più importanti e, per certi versi, terribili cui l'umanità deve partecipare sia quando essa si rappresenti attraverso i giudicati sia quando venga a manifestarsi per mezzo dei giudicanti.
L'interesse di Sciascia era sempre legato a un concetto di libertà indispensabile al vivere civile. Ricordo la spiegazione che dette a Giorgio Calcagno sull'interesse che nutriva per il mondo giudiziario: “Guicciardini diceva che se in uno stato tirannico od oligarchico si potesse esser sicuri della giustizia, non ci sarebbe ragione di desiderare molto la libertà; anche se poi aggiunge che l'osservanza delle buone leggi e dei buoni ordini è più sicura nel vivere libero che sotto il potere di uno o di pochi. In Italia, oggi, siamo al paradosso, al non senso, che la libertà non ci fa sicuri della giustizia. Non credo che, in una società civile, ci sia problema più di questo grave e angoscioso”.
Fu al tempo stesso straordinario testimone e giudice dei fatti della storia: giudice rigoroso ma implacabile e imparziale, e testimone attento, sempre teso a costruire una spiegazione di civile dignità sugli eventi quotidiani.
Proprio riconsiderando la sua posizione critica nei confronti del giudizio, ma al tempo stesso capace di assumere la responsabilità di giudicare serenamente, mi sono spesso domandato come possa un uomo scegliere di fare il giudice.
Un uomo, voglio dire, con i suoi difetti e le sue limitazioni anche di apprendimento. Come può un uomo compiere quell'atto di grande presunzione che è il giudicare un suo simile. Di questa possibile presunzione l'umanità ha fatto una professione; quindi, la professionalità si sostituisce al giudizio morale. La risposta che Sciascia dava a questo dilemma si basava sulla necessità di condurre una battaglia democratica nei confronti della giustizia umana proprio astenendosi di schierarsi dalla parte di coloro che affermano il nolite iudicare, giudizio che portò di fatto alla crocefissione. Infatti, Leonardo Sciascia si fece sempre propositore di una giustizia da amministrare con grande senso di umiltà e sofferto equilibrio, ma anche con grande responsabilità e fermezza. Sia, qui, sufficiente il suo reiterato, sofferto, ostinato richiamo alla Legge.
I libri che scrisse, resi accattivanti dalle trame spesso “poliziesche”, si leggono d'un fiato per la loro perfetta orchestrazione e il lettore è trascinato verso le conclusioni quasi senza avere il tempo di respirare. Ma dopo aver chiuso il libro si ha immediatamente la voglia di riprenderlo per avviare quell'opera di rimeditazione e di interpretazione anche semantica che, leggendo Sciascia, viene talora spontanea e impellente. Tutti i suoi libri sono grandi opere letterarie, ma anche testimonianza della sua coscienza di uomo civile espressa sempre senza titubanze, per riproporre comportamenti di profonda saggezza agli uomini di buona volontà.
Fra tutti i libri dello scrittore quello che maggiormente mi affascina è Cruciverba, oggi riedito nell'opera omnia. Mi sembra infatti un'opera che meglio di altre sue spiega l'amore per il mistero. Vi regna sovrano il cruciverba, enigmatica rappresentazione dell'incrocio fra storia e attualità. L'interpretazione degli eventi passati li proietta nel presente per estrarne insegnamenti che possano condizionare anche il nostro comportamento nel futuro. E' un libro che sembra nato proprio da una magica combinazione che lo stesso Sciascia aveva ricordato traendola da un articolo di Pietro Paolo Trompeo: “Quando Apollo e le Muse si mettono a fare le parole incrociate, nascono combinazioni stupende”. E, in quelle stesse pagine Sciascia ha fatto giocare Apollo e le Muse e vi ha fra l'altro scritto parole esemplari su Il secolo educatore, il Settecento: Diderot è la chiave del secolo. Quest'uomo che voleva esser nulla, "ma nulla del tutto", ha come inventato il secolo in quel che noi gli riconosciamo di più proprio, di più originale, di irripetibile. Voleva esser nulla (lo dice all'esaminatore, alla fine dei suoi studi) in rapporto a quel che già c'era, è stato tutto in rapporto a quel che non c'era... Per non averne alcuna, Diderot ha dunque inventato una professione: quella dell'intellettuale... Eppure è soprattutto attraverso la sua opera che il secolo XVIII ci raggiunge, ci occupa, ci offre strumenti e misure... E un critico dei giorni nostri aggiunge: Non sarebbe possibile fare la storia del teatro moderno, del romanzo moderno, della critica d'arte senza porre in rilievo la battaglia innovatrice che Diderot condusse... Grande educatore in un secolo educatore”.
Mi fa piacere compiere una trasposizione analogica fra personaggi da me molto amati: mi piace ricordare Leonardo Sciascia come un grande educatore in un secolo, per molti versi, molto poco educato.

(da Il Sole/24 OreDomenica, 26 novembre 1989)