Due docenti di Lettere nonché socie della nostra Associazione – Rossana Cavaliere e Roberta De Luca, che insegnano rispettivamente al Liceo Gramsci-Keynes di Prato e al Liceo Leonardo da Vinci di Terracina – sull’avvenimento hanno scritto i due testi che presentiamo di seguito.
L’una all’insaputa dell’altra, hanno chiuso i loro articoli con le stesse parole: “attraverso la letteratura”. Si tratta di una coincidenza curiosa ma non troppo sorprendente: “Lo scrittore rappresenta la verità, la vera letteratura distinguendosi dalla falsa solo per l’ineffabile senso della verità – afferma infatti Leonardo Sciascia in La Sicilia come metafora –. Va tuttavia precisato che lo scrittore non è per questo né un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità. Per quanto mi riguarda, io scopro nella letteratura quel che non riesco a scoprire negli analisti più elucubranti, i quali vorrebbero fornire spiegazioni esaurienti e soluzioni a tutti i problemi”.
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L’attualità di Sciascia e la coscienza dei giovani
di
Rossana Cavaliere
La notizia
Finalmente agli esami di maturità 2019 Sciascia, nel trentennale della morte, è diventato protagonista, attraverso un passo tratto dal suo romanzo più famoso, che è stato assegnato come prima prova di tipo analitico, settore prosastico, insieme con Ungaretti, per quello poetico. L’avverbio incipitario è d’obbligo, in quanto, se si escludono una sua remota apparizione, con uno stralcio brevissimo in una rosa di pensatori che dovevano fare da filo conduttore per elaborati di tipo saggistico, e la più corposa presenza nelle prove suppletive dell’anno scolastico 2017/2018, con un brano sulle problematiche dei migranti, estrapolato da Il mare colore del vino, Sciascia è stato a lungo trascurato. È per questo che la proposta ministeriale del 19 giugno u.s., destinata ai maturandi, va salutata, a mio avviso, se non come una consacrazione, almeno come un riconoscimento ufficiale del suo ruolo nella cultura del nostro tempo, soprattutto per l’accostamento a Ungaretti, considerato a tutti gli effetti un pilastro del Novecento, grazie alle sue innovazioni formali e alla pregnanza dei suoi versi.
Che Sciascia, dunque, non abbia quasi trovato spazio per lungo tempo perfino in illustri antologie di letteratura italiana per i Licei e, nella migliore delle ipotesi, figurasse con poche paginette di lettura solo in quelle del biennio è un dato poco confortante ma acquisito; il tema assegnato ai primi esami di Stato successivi all’ennesima riforma sembra tuttavia consolidare un cambio di rotta: il nostro Autore non è più considerato il narratore (o, riduttivamente, giallista) adatto ai quindicenni, bensì lo scrittore a tutto tondo sul quale gli allievi più grandi, pervenuti al compimento del loro cammino di studi superiori, sono chiamati a palesare la raggiunta maturità.
La scelta
La scelta del MIUR è ricaduta su un passo non scontato: un dialogo che si svolge nelle prime pagine de Il giorno della civetta tra Bellodi, il famoso capitano dei carabinieri senza macchia e senza paura, mandato nel profondo Sud dalla nebbiosa Parma a far rispettare la legge, e i tre fratelli di Salvatore Colasberna, il piccolo imprenditore edile ucciso dalla mafia perché si era rifiutato di sottostare alla cosiddetta “guardianìa”, imposta dalla cosca che gestiva gli appalti di lavori pubblici.
Non il dialogo più celebre e ricco di arguzie, dunque, dal quale emerge con maggiore veemenza lo scontro di mentalità: il passo da analizzare non era la scena epica alla quale la memoria dei lettori vola immediatamente, quella cioè tra Bellodi e don Mariano Arena, e direi per fortuna, in quanto il potere immaginifico e insieme fortemente connotato del modo di esprimersi del capomafia avrebbe rischiato di suscitare maggiore attenzione rispetto a quello più dotto e meno popolare dell’interlocutore e perciò di trovare negli elaborati uno sviluppo preponderante. Ricordiamo in tanti, infatti, come il potente boss, dal curriculum esteso quanto tutto l’alfabeto (reati «dalla a, abigeato alla z, zuffa»), capace di muovere le fila dei tanti burattini al suo servizio, fosse abile nel parlare, così da risultare un novello Proteo anche di fronte all’incalzante requisitoria del difensore della legge, a sua volta eccellente oratore, le cui parole «musicalmente stormivano». E soprattutto ricordiamo tutti (ma proprio tutti) la celeberrima classifica del genere umano di don Mariano, divulgatore di modi di dire prettamente siciliani come «ominicchi» e ancor più «quaquaraquà», ormai entrato a buon diritto nel lessico nazionale, con la forza fonosimbolica dell’onomatopea (suggerimenti acustici che evocano il verso dell’oca, associata da sempre, con buona pace di Lorenz, alla stupidità) che potenzia la denotazione e travalica il significato gergale di “delatore” per abbracciarne uno più ampio di persona che parla a sproposito, inaffidabile, del tutto indegna di rispetto e collocata, perciò, al gradino più basso della gerarchia umana.
Nel dialogo proposto ai candidati, invece, si fronteggiano Bellodi, con il suo rigore di uomo di legge, e, a nome degli altri due fratelli, Giuseppe Colasberna, deciso a negare, negare sempre e comunque, a mistificare la verità, perché votato a depistare le indagini. Dal campo e controcampo emergono due mondi dalla distanza siderale, si dispiegano due culture agli antipodi: quella dell’omertà e dell’illegalità degli interrogati da una parte, della giustizia e della rettitudine dall’altra. Il capitano vorrebbe estirpare la mala pianta della mafia, almeno dal piccolo lembo di Sicilia dove sta operando con solerzia, ma la sua battaglia è destinata al fallimento, perché egli non si sintonizza con quella povera gente vessata, che ha perso da troppo tempo la fiducia nella giustizia, anche a causa delle secolari dominazioni, e perciò risulta isolato, estraneo al contesto, inopportuno, un po’ come la civetta «quando fuor d’ora si mostra».
In questo stralcio appare evidente la diversa maniera di porsi del capitano e dei fratelli della vittima: il primo si rivolge con un fare avvolgente, sciorinando le possibili cause dell’uccisione di Salvatore come se fossero ipotesi di scuola retorica (non ha le prove), mentre gli altri lesinano le parole, si affidano alla mimica e ai dinieghi, trincerandosi dietro la coltre dell’omertà più pura. Bellodi, dunque, cerca di condurli con mano all’ammissione dell’esistenza del sistema di pilotaggio degli appalti e delle protezioni imposte «con le buone o con le brusche», di risvegliare in loro lo sdegno per la morte del congiunto, evidentemente punito da quelli dell’«associazione», mai nominata ma allusa («voi capite di quale associazione parlo»), perché considerato una «pecora nera» da annientare, un «cattivo esempio» che non può essere tollerato. I fratelli Colasberna appaiono, invece, tetragoni nella loro volontà di far naufragare le indagini: si consultano con lo sguardo e affidano al portavoce Giuseppe le loro lapidarie, evasive, menzognere risposte.
Un dialogo tra sordi, in cui le parole sono scelte con cura: dosate con estrema parsimonia da un lato, fluide e catturanti dall’altro, ma sempre senza eccessi, affinché il testo avesse «misura, essenzialità e ritmo», come testimoniava lo stesso autore, quando raccontava di aver impiegato un anno per «cavare, cavare, cavare», anche al fine di tutelarsi dai rischi connessi all’incandescenza della materia affrontata e alla «suscettibilità di coloro che le [leggi] fanno rispettare».
La consegna
Gli studenti, dopo essere stati chiamati a svolgere un lavoro di sintesi, utile a saggiare la capacità di enucleare da un contesto più ampio le informazioni essenziali, dovevano scoprire, attraverso domande mirate, gli artifici della lingua adottata da Sciascia, analizzando il passo come per condurre anch’essi un’indagine poliziesca, cercando cioè gli indizi dello scontro di mentalità (le reticenze espresse dai puntini sospensivi, le perifrasi per non menzionare la mafia, le metafore per arrivare al cuore prima che alla mente, le anadiplosi). Dovevano, poi, spiegarli e arrivare a una conclusione meditata su quella cancrena che è tuttora la mafia e sul dovere civico di denunciarla e prevenirla. Ai più documentati è stata offerta l’opportunità di fare riferimento anche alla filmografia sulla mafia e, dunque, anche al bel film di Damiani, tratto nel 1968 dal romanzo e tante volte riproposto dalle televisioni (e da qualche sollecito docente), di cui mi sono occupata di recente su questa rivista, mettendo a fuoco la centralità del ruolo svolto dalla Cardinale, più che l’importanza dell’opposizione manichea tra bene e male su cui il regista insisteva, con i due rispettivi rappresentanti che si fronteggiavano anche visivamente (la sede dei carabinieri era collocata proprio di fronte alla frequentatissima terrazza del potente capomafia), come in una sorta di “western di Cosa nostra”.
Per concludere, la proposta del passo de Il giorno della civetta agli esami di Stato 2019, accolta dall’11% dei candidati (contro il 9% che ha optato per Ungaretti, per quanto attiene alla tipologia A), ha valorizzato l’efficace duttilità della scrittura di Sciascia, pronta ad assecondare personaggi tanto diversi, e indotto i giovani a riflettere sul tema dell’omertà e della lotta alla mafia. Quelli, poi, che avevano avuto modo di leggere il romanzo avranno potuto riferirsi anche al messaggio che il libro veicola, specialmente attraverso il finale amaro: se Bellodi è stato trasferito d’ufficio altrove, se la sua indagine è stata smantellata e l’antistato ha prevalso, è perché la sua battaglia non ha trovato sostegno ma solo diffidenza, rimanendo solitaria, incompresa, fallimentare. E i ragazzi hanno senz’altro capito che non servono eroismi isolati e che, per debellare la criminalità organizzata, sempre più tentacolare per le insospettabili connivenze, occorre uno sforzo collettivo e condiviso, occorre il coraggio di collaborare alla ricerca della verità, perché è solo insieme che si può ancora tentare di cambiare le storture della nostra società.
Così, anche a distanza di quasi sessant’anni, Sciascia dà uno scossone alla rassegnata abulìa di chi non prova nemmeno a combattere, educa al senso civico, parla alle coscienze. Attraverso la letteratura.
Rossana Cavaliere
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È uscito il «salice nano». Sciascia alla Maturità.
di
Roberta De Luca
Con riferimento ad un mio articolo di un anno fa, pubblicato sul Leonardo Sciascia Web, riguardante la prova di Italiano degli Esami di Stato, posso affermare che quest’anno è finalmente uscito «il salice nano»: Leonardo Sciascia è uno dei due autori scelti dal Ministero dell’Istruzione (l’altro è Ungaretti) per la tipologia A (Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano). Dal 19 giugno 2019, giorno della prima prova di maturità, il web pullula di articoli e commenti che analizzano e riflettono su un fatto che, diciamolo subito, ci riempie di gioia e che gli Amici di Leonardo Sciascia si erano augurati, vista la concomitanza con il trentennale della morte dell’autore.
Sorvolando sulla questione di uno Sciascia “mafiologo” e della riduzione di uno scrittore di tale grandezza a un solo ambito – altri meglio di me ne hanno già discusso – io intendo restare in una prospettiva scolastica, esprimendo il mio punto di vista di docente. Se si confronta l’impostazione della prova su Ungaretti con quella su Sciascia, si nota, alla voce Interpretazione, una differenza sostanziale. Nella consegna relativa a Ungaretti, oltre alla riflessione sul tema della poesia, si chiede al candidato di parlare del percorso interiore del poeta e di riferirsi eventualmente ad altri testi dello stesso autore. Ungaretti dunque è chiamato in causa come poeta, come autore della letteratura italiana. Sciascia, al contrario, non viene proprio nominato (il brano avrebbe potuto essere tratto tranquillamente da un altro autore che affrontasse lo stesso argomento), perché al centro del discorso è posto solo il tema “mafia” che lo studente deve discutere e inserire in un percorso anche di tipo cinematografico. La differenza nel criterio adottato per le due opzioni, occorre dirlo, è coerente con l’impianto dei testi di letteratura che di solito si utilizzano a scuola e che dedicano a Ungaretti un intero Modulo Autore e una scelta antologica ampia, a Sciascia un capitoletto in percorsi tematici o di genere, con un solo testo in antologia, massimo due. È chiaro in premessa che lo studente non sarà preparato a far emergere dal testo sciasciano la conoscenza dell’autore e delle sue opere, il suo pensiero e la sua dimensione intellettuale, l’importanza che ha ancora nel dibattito contemporaneo e la sua specificità letteraria e linguistica. Sciascia perciò non è ancora recepito come classico della letteratura italiana qual è, anche a causa di un retaggio accademico e critico che ha stabilito fatalmente chi fosse da considerare grande e chi no.
L’esame di maturità, però, malgrado tutto, esiste e resiste, è il punto d’arrivo di un percorso di studi che dura un po’ di anni, indica a sua volta una direzione. E se gli studenti spesso si ritrovano a dover analizzare testi di autori a loro sconosciuti o conosciuti di nome e per nulla letti, c’è un problema, che spetta ai docenti risolvere o almeno cercare di non determinare. Le Indicazioni nazionali, è vero, non includono tutti gli autori che poi saranno oggetto della tipologia A (Sciascia è assente, come tanti altri), ma lasciano molto margine alla libertà didattica, alle scelte individuali. Non si impone di non leggere Sciascia, o Carlo Levi, o Bassani o Buzzati, o Savinio, o Ginzburg, o Aleramo, o Sbarbaro, o Campana...; sono gli insegnanti a decidere le loro programmazioni sulla base di criteri oggettivi e soggettivi, dopo aver letto gli autori (non i manuali), dopo essersi formati, appassionati, innamorati.
Per non incorrere nei giudizi sferzanti degli studenti che ci è toccato leggere sul nostro profilo Instagram (insieme ai ringraziamenti per le “dritte” ricevute. Da noi!), ma soprattutto per riparare il mondo, a partire dalla scuola, attraverso la letteratura.
Roberta De Luca
Qualche articolo dal web:
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/20/vittorio-sgarbi-tracce-maturita/42586/