Leonardo Guzzo - I professionisti dell'antimafia

 

Era il gennaio del 1987 quando Sciascia uscì definitivamente dall’alveo del “politically correct”. Dopo romanzi di critica e denuncia, dopo l’abiura del comunismo (di cui era sempre stato seguace poco ortodosso) e l’ingresso nelle file del artito Radicale, decise di compiere il passo finale.

Il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera uscì, a firma di Leonardo Sciascia, un articolo intitolato “I professionisti dell’antimafia” e dedicato al rapporto tra politica, popolarità e lotta alla mafia. A fornire lo spunto era un libro di Christopher Duggan, ricercatore a Oxford e allievo di Denis Mack Smith, che raccontava la parabola di Cesare Mori, il castigamatti della mafia durante il Ventennio fascista.

Sciascia aveva già trattato l’argomento, seppur di passaggio, nel Giorno della Civetta esprimendo una tesi lapidaria. Aveva riconosciuto gli innegabili successi di Mori, ammonendo però che essi furono raggiunti a prezzo del sacrificio della libertà personale e dell’instaurazione di un clima da Far West.

Adesso, affrontando il tema in maniera più specifica, raffinava la sua tesi e inseriva il contrasto di Mori alla mafia nel quadro più ampio delle lotte interne al partito fascista. In Sicilia e in tutto il Paese, diceva, la vita del fascismo fu caratterizzata dalla dialettica, prima aspra e poi via via più sfumata, tra un’ala conservatrice tutta ordine e disciplina, di cui Mori faceva parte, e un’ala rivoluzionaria di ascendenza socialista e anarchica. Il contrasto di Mori alla mafia, condotto con strumenti eccezionali e senza alcuno scrupolo, salutato dall’opinione pubblica con straordinario favore, servì all’ala conservatrice per conquistare definitivamente la supremazia nel partito e imprimere la sua forma sul regime.

Da questa vicenda Sciascia traeva una morale scomoda e tutt’altro che “storica”: l’antimafia, adoperata con abilità e spregiudicatezza, può diventare un formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa. Ne seguiva un’invettiva contro quei sindaci che marciano nei cortei antimafia, parlano ai raduni e nelle scuole e magari non si occupano dei problemi concreti delle loro città, ma che nessuno si sognerebbe mai di rimuovere, per via dei meriti acquisiti “in trincea”. E ancora, tirava in ballo un lampante esempio di malfunzionamento della magistratura: la nomina a procuratore di Marsala di Paolo Borsellino, in spregio alla graduatoria degli aventi diritto e alle regole di anzianità, per “una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata di stampo mafioso”. 

Nel gennaio del 1987 la provocazione di Sciascia destò scalpore. Quasi trent’anni prima lo scrittore aveva mostrato all’Italia l’esistenza della mafia, squarciando una spessa cortina di pudori, silenzi compiaciuti, omertà; e adesso che l’onda dell’antimafia montava in tutto il Paese, sceglieva di andare controcorrente. I pochi coraggiosi del Comitato Antimafia di Palermo potevano ancora sentirsi isolati ma era indubbio che il clima italiano stava cambiando: Sciascia esibiva gli allori, riportava stralci dei suoi capolavori per testimoniare che era quello di sempre, che la sua posizione non era cambiata, e intanto puntava il dito contro incongruenze e degenerazioni della lotta alla mafia, bacchettava i novellini che accampavano meriti senza averli. C’era in questo sfogo un po’ di civetteria, l’amarezza di vedersi scavalcato da nuovi, rampanti ed equivoci anti-mafiosi; ma c’era anche un tratto profondo dello Sciascia uomo: la coerenza, il puntiglio, l’intransigenza.

Nei giorni, mesi e anni successivi l’articolo di Sciascia suscitò un putiferio. In un comunicato, il Comitato antimafia di Palermo bollò lo scrittore come un “quaquaraquà”, prendendogli a prestito la definizione, e lo accusò di seminare zizzania nel fronte, già esiguo e spaurito, degli avversari di Cosa Nostra. I soliti detrattori gli rimproverarono di cantare nei suoi libri l’epopea della mafia, in un certo senso di mitizzarla. Qualcuno insinuò che della mafia Sciascia avesse una conoscenza intima, quasi “familiare”, adombrando pericolose collusioni. Nessuno si sforzò di leggere tra le righe. 

L’Italia che ama i discorsi nel merito e assai poco quelli sul metodo, fece quello che sa fare meglio. Trasformare un ragionamento di principi, correttamente ancorato a esempi pratici, in un atto di diffamazione e a sua volta schierarsi, dividersi tra sostenitori (pochi) e contestatori (un indecoroso sproposito). Discutere sull’opportunità e il dubbio tempismo dei riferimenti di Sciascia era legittimo, ma trasformare il dibattito in un referendum pro o contro Leoluca Orlando, sindaco “in prima linea” di Palermo, e Paolo Borsellino, nascente emblema dell’antimafia, fu dissennato. Significava svuotare di ogni logica le parole dello scrittore, renderle imperdonabili, disperderne l’alto valore civile e il significato profetico.

A distanza di anni, anche la vedova di Borsellino ha riconosciuto che “Sciascia aveva capito tutto in anticipo”. Il carrierismo, in magistratura come altrove, è un male serio: un egoismo insano proiettato sul successo professionale e la scalata del cursus honorum. Riportando le circostanze della nomina del nuovo procuratore di Marsala, Sciascia non si limitava a stigmatizzare il caso concreto. Offriva un esempio per rintracciare un fenomeno più ampio. E certamente non voleva attaccare Borsellino, che della vicenda era oggetto inconsapevole o, al limite, involontario complice.

Del resto i “protagonisti dell’antimafia”, quelli veri e coscienziosi, da sempre si abbeveravano al magistero dello scrittore di Racalmuto: la sua analisi storica e culturale era una base indispensabile per capire le origini e lo sviluppo di Cosa Nostra, la situazione descritta all’inizio degli anni ’60 nel Giorno della civetta era ancora in gran parte attuale. Borsellino in particolare, nelle ultime drammatiche circostanze della sua vita, amava ripetere alla maniera di un motto una frase inquietante e profetica:”Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ha paura muore una volta sola”. Si tratta, riveduta e corretta, di una frase che lo stesso Sciascia usa per descrivere un personaggio minore del Giorno della civetta, il miserabile Parrinieddu, bracciante della mafia e spia della polizia per necessità. Il quale “per la paura di morire ogni giorno affrontava la morte”.

Piuttosto che un’aggressione contro personaggi in voga ma a lui sgraditi, l’articolo di Sciascia era una riflessione circostanziata sui sintomi del malcostume italiano: sull’approssimazione e la superficialità, sull’apparenza che scalza la sostanza, sull’insofferenza a ogni forma di disciplina, anche interiore.

Era pure un atto d’accusa contro la giustizia, cui Sciascia imputava un’irresistibile tendenza all’astruso e all’incomprensibile, l’uso di uno stile farraginoso eppure ermetico. Un classico… Ma in bocca al maestro degli arzigogoli e della prosa “barocca”, l’accusa suonava doppiamente grave. Poter scrivere “difficile” e farsi lo stesso capire, come Sciascia dimostrava, voleva dire che al garbuglio la giustizia italiana aveva un’autentica vocazione.

Ovviamente non era solo questione di forma. Agli occhi di Sciascia il sistema giudiziario peccava di irrazionalità, diffusa immoralità, endemica amoralità. Se la legge che rinuncia ai lumi della ragione è pericolosa, quella che si stacca dalla morale (morale “naturale” e dunque razionalista), quella meccanica e animalesca di Mori, è addirittura mostruosa. Quanto alla legge immorale, la legge che la morale infrange, essa è né più né meno mafia.

La discrezionalità, l’arbitrio, la mancanza di trasparenza, che il caso della nomina di Borsellino denotava, bruciavano a Sciascia al punto da risultargli intollerabili, tanto quanto lo stato di emergenza e i poteri eccezionali che permisero a Mori di attuare il suo “repulisti” senza regole. La sfida, la vera sfida, per lui era vincere la mafia nei limiti angusti della legge, senza indulgere a derive autoritarie o deliri di onnipotenza, senza cedere alla comodità, all’abitudine, alla “via breve” che la mafia avevano generato.

Rileggendo dopo oltre vent’anni l’articolo dello scandalo, si scopre che lo Sciascia “giornalista” si concilia perfettamente con lo Sciascia scrittore. E il suo messaggio appare chiaro, più chiaro fuori dalle nubi della polemica. Vincere la mafia richiede lo sforzo di vincere due volte. Vincerla e staccarsene nettamente, schiacciarla affermando una superiore dignità, un primato morale. Per questo, crede Sciascia, i nemici della mafia non possono venir meno all’humanitas, derogare alle regole e al governo della ragione. Per questo, fino a quando il Paese non si assoggetterà a una morale che la giustizia per prima accolga e rappresenti, la mafia non sarà battuta.