SCIASCIA E PIRANDELLO: UN RAPPORTO QUASI FILIALE

«Sicché posso dire – come altrove ho già detto – che il mio rapporto con l’opera pirandelliana ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendolo come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità».

Nel discorso commemorativo pronunciato da Leonardo Sciascia il 10 dicembre 1986 a Palermo, nel cinquantenario della morte di Luigi Pirandello (di cui si riporta in epigrafe un breve passo) emerge il forte legame che unì i due scrittori siciliani, quasi una vera e propria ossessione.
Il testo è inserito in appendice al saggio Pirandello e la Sicilia scritto da Leonardo Sciascia e pubblicato nel 1961.
Lo scrittore di Racalmuto dice di aver trascorso molte ore della sua vita sui libri del conterraneo e molte ore a ripensarli e riviverli, tra ostilità e imposizione (ad esempio l’adesione di Pirandello al fascismo), quasi «una specie di catalizzazione e di precipitazione», in una continua scoperta di sé, della Sicilia, del teatro della vita.
L’ «acuta lettura» o un «più attendibile discorso» si snoda attraverso tre punti fondamentali: la Sicilia, la “religiosità” e il rapporto con Montaigne e con Pascal.
Il saggio succitato non è un lavoro di tipo esegetico, ma è «una breve e quasi assolutamente personale memoria di un soggiorno nell’opera pirandelliana che quasi coincide con quello che lo stesso Pirandello chiamava l’involontario soggiorno sulla terra».
Si tratta dunque di un dialogo costante tra “padre” e “il figlio”, ripercorrendo le radici del pirandellismo, in un viaggio nel prezioso universo letterario fatto di parole, di incontri letterari ma anche di immagini.
Il punto di partenza di questo viaggio è per entrambi la cara Sicilia, crocevia di culture, un mondo arcaico, un modo di essere; la Sicilia come sinonimo di zolfo, di zolfara. Senza la zolfara (e le sue tragedie: di morte, dolore e sfruttamento umano) «non ci sarebbe stata – dice Sciascia – l’avventura dello scrivere, del raccontare»: per Pirandello ma anche per altri scrittori siciliani. 
Ma Sciascia condivide con Pirandello quell’esasperato individualismo, in cui agiscono «le componenti dell’esaltazione virile e della sofisticata disgregazione», la Sicilia come il teatro del mondo in cui la vita diventa forma e la forma diventa vita: un luogo da cui Pirandello «decolla verso spazi vertiginosi» e verso il mondo – vista l’iniziale affinità – realistico, fiabesco e spiritistico di Luigi Capuana. 
Sciascia diceva che «la vita o la si vive o la si scrive»; egli ha scelto di scriverla e lo ha fatto attraverso Pirandello, accettando l’autorità paterna, come si accetta la realtà.
Grazie a Pirandello, la verità diventa per Sciascia più reale e la realtà più vera, e il viaggio giunge alla meta: il “dramma della modernità”.
Il saggio “Pirandello e la Sicilia” è un testo che offre molti spunti didattici per la ricchezza di richiami tra letteratura e storia e per le tematiche care a Sciascia: ingiustizia, continua ricerca della verità ma anche quella “sicilianità”, l’ancestrale convinzione che il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato, un mondo al quale è mancata una rivoluzione illuministica. 
 Luciana Sanguigni