Da Alice.it


Matteo Collura, giornalista del Corriere della Sera e autore di libri di successo come Il maestro di Regalpetra, Alfabeto eretico ed Eventi, dedica il suo nuovo libro ad un affascinante viaggio nella terra natale. La Sicilia, con le sue suggestioni storiche, culturali e paesaggistiche è infatti la protagonista assoluta di un itinerario, insieme “fisico” e immaginario, che lo scrittore, nato ad Agrigento e trasferitosi a Milano, percorre guidato dalla nostalgia ma anche dal desiderio di indagare su fatti, personaggi e luoghi, noti o meno sconosciuti. La narrazione, limpida, fluida e vivace, vaga dal desolato paesaggio di Portella della Ginestra alle bellezze di Agrigento, dai palazzotti di Palermo all’Etna, rivisitando nomi, suoni, sapori, in un continuo scambio di prospettiva: dal mito alla realtà, dal passato al presente e viceversa. Tra le pagine di questo raffinato racconto di viaggio, che ricorda i fasti dei Grand Tour compiuti nei secoli passati dai giovani e colti europei, si snoda una ricchissima carrellata di eventi e personaggi. Rivivono così le figure di siciliani d’ogni tempo, l’avventuriero Cagliostro, il principe Raniero Alliata di Pietratagliata, il bandito Salvatore Giuliano, il giudice Livatino, che si mescolano alle immagini dei grandi ospiti stranieri dell’isola, da Goethe a Wagner, e ai luoghi simbolo e ricordo delle glorie dell’antichità: il greco mare di Sicilia, Segesta, Siracusa. Né si dimenticano le pagine buie della storia siciliana: il percorso incomincia da Portella della Ginestra, per poi toccare Cassibile, nella cui campagna Collura si aggira cercando, tra le pieghe dei ricordi che ogni territorio gelosamente conserva, il luogo in cui venne firmato il noto armistizio. Altra commovente tappa di un triste itinerario sono le strade e i quartieri di Palermo, dove l’autore ricorda di aver compiuto, in compagnia del regista Francesco Rosi, un inconsueto tour alla ricerca delle lapidi delle tante vittime illustri della mafia.

Quello narrato In Sicilia è un viaggio nei sentimenti in una regione dai mille volti e dai feroci contrasti; una terra in cui gli uomini appaiono al tempo stesso dentro e fuori dagli eventi e dove sullo sfondo domina prepotente il paesaggio, dio sacro e profano che intride di sé ogni cosa, e dà vita a una terra impareggiabile e sfuggente, di cui Collura mette a nudo l’anima più profonda.

Massimo Onofri, La modernità infelice – Saggi sulla letteratura siciliana del Novecento, pp. 192, euro 13, Avagliano editore, Cava de’ Tirreni 2003


Una raccolta di saggi occasionalmente concepiti e pubblicati su riviste o come prefazione alla ristampa di un romanzo. Niente di più ovvio, si sarebbe tentati di dire, ma non in questo caso. Anzitutto perché l’autore dei saggi qui raccolti è Massimo Onofri, tra i più interessanti dei critici letterari di casa nostra, e poi perché i diversi saggi compongono un disegno compiuto e organico. E’ lo stesso Onofri a spiegarcelo, con la sua solita lucidità nella premessa, per l’occasione trasformata da rituale spesso vacuo e dal tono per così dire giustificativo - quale spesso è - in una vera chiave interpretativa, offerta al lettore per leggere nei diversi saggi, come in filigrana, il disegno che tutti li accomuna, e che fa di questo libro un’opera riepilogativa: sulla letteratura siciliana del Novecento e sul percorso seguito da Onofri nell’interpretarla e illustrarla.

Da Pirandello a Consolo, passando per Borgese, Brancati, Tomasi, Sciascia, Bufalino, la letteratura siciliana viene riletta da Onofri come un’ininterrotta autobiografia della nazione, vera e propria contro-storia d’Italia letteraria e civile, con la Sicilia assunta come pietra dello scandalo della mancata modernizzazione dell’intero paese. Si precisa così quella linea che parte da Pirandello e che si sostanzia di quella nozione di Sicilia espressa dallo stesso scrittore agrigentino nel Discorso, a Catania, per gli ottant’anni di Verga – autentico paradigma della letteratura siciliana secondo Onofri, e infatti ripetutamente ripreso, per riannodare i fili di un discorso che variamente è stato declinato, ora nella sicilitudine da Sciascia, ora nella isolitudine da Bufalino.

Il caso Borgese apre la serie dei saggi e riapre, meritoriamente, una questione irrisolta della cultura italiana: la rapida eclissi, il vero e proprio ostracismo, cui andò incontro il critico e scrittore siciliano, dopo la folgorante apparizione nei primi decenni del Novecento. Le ragioni proposte da Onofri sono tutte riconducibili alla disorganicità di Borgese rispetto alla cultura dominante: in letteratura come nel campo della critica e dell’estetica, e in politica. Particolarmente interessante, per la sua acutezza, appare l’osservazione sul pendolarismo Sicilia-continente del protagonista del romanzo Rubè, letto come metafora della sua mancata integrazione nella vita civile e sociale della nazione. Interpretato a ridosso dei Vecchi e i giovani di Pirandello, il romanzo s’inscrive in quella contro-storia d’Italia che ha in Brancati e poi in Sciascia i suoi autori più illustri e incisivi, disorganici per antonomasia, la cui lezione antifascista – contro l’eterno fascismo italiano, categoria metastorica superiore a tutti i trasformismi – si è perpetuata dall’uno all’altro, così marcando la loro diversità nel panorama delle lettere italiane. Sciascia, da parte sua, lo aveva già efficacemente sottolineato.

Lo scrittore di Racalmuto, a guardar bene, è il vero ispiratore dei saggi qui raccolti, e proprio nelle costanti che li tengono assieme e che ne fanno un libro compiuto. I temi sono gli stessi già affrontati da Onofri a partire dal suo Storia di Sciascia (Laterza, 1994), a proposito delle interpretazioni critiche, o intuizioni a seconda dei casi, espresse da Sciascia sugli scrittori siciliani. Onofri ha mirabilmente illustrato le interpretazioni del letterato e le ha fatte proprie, sviluppandole e approfondendole, in sede critica, con le competenze e il talento di cui dispone. Certo i suoi saggi sarebbero molto piaciuti a Sciascia, che vi avrebbe ritrovato sviluppate le proprie intuizioni: la letteratura siciliana, a partire da Verga, come “contro-storia d’Italia letteraria e civile”; il riferimento agli appuntamenti mancati, con Freud, Marx, dagli scrittori siciliani, felicemente mancati, così rinsaldando quella tenace diffidenza verso le sacre divinità della modernità novecentesca. E ancora la concezione platonica di letteratura presente in Sciascia, rintracciata da Onofri nelle teorie estetiche di Borgese e poi ritrovata nelle opere degli scrittori siciliani fino a Consolo.

Marcello D’Alessandra

Recensione apparsa su “L’Indice dei Libri del Mese”, ottobre 2003

La linea della palma

Saverio Lodato
fa raccontare
Andrea Camilleri

Rizzoli 2002
Dalla introduzione di Saverio Lodato:
Una volta Falcone, in un’intervista mi disse che quelli della sua generazione si erano formati sui primi romanzi di Leonardo Sciascia, scrittore che aveva avuto il merito – osservava – di dare a tutti gli italiani almeno l’infarinatura di un fenomeno altrimenti letteralmente taciuto, ignorato, rimosso. Ma per ironia del destino, Leonardo Sciascia, all’inizio del maxi processo avviato dal “pool antimafia” di Palermo, fu protagonista di una dura polemica proprio contro quei “professionisti dell’antimafia” che erano in cerca di solidarietà da parte degli ambienti intellettuali più avveduti e più illuminati. Ho avuto altre occasioni per soffermarmi a lungo su quella polemica. E di spiegare come e quanto Sciascia fu strumentalizzato, ancor prima che frainteso. Qui lo ricordo solo perché quella polemica è, in qualche modo, una delle ragioni forti che mi spinsero a incontrare Andrea Camilleri nel luglio 2001. (p. 9)
Andrea Camilleri risponde:
D. Torniamo per un attimo a Il giorno della civetta. Con quel libro, Sciascia ebbe il merito di denunciare il fenomeno mafioso e cominciare a far prendere coscienza agli italiani… Condividi?R. Precisiamo. Io sto parlando col senno di poi, avendo visto che cosa sarebbe diventata poi la mafia. Io non sono d’accordo né con Sebastiano Vassalli né con Pino Arlacchi, i quali hanno detto che Sciascia, in fondo, era un vile. No, Sciascia è stato il primo a scrivere un romanzo nel quale erano rappresentati la mafia e il mafioso. Ha posto il problema sul tappeto. Un romanzo che terminava con la frase: “Mi ci romperò la testa – disse ad alta”… Era come se alla fine di quella storia ci fosse scritto: “Continua”. Uno dice Alessandro Manzoni… Il Manzoni è il primo che piglia due poveri disgraziati e te li fa diventare protagonisti di un romanzo. Sciascia utilizza un mafioso e un capitano che gli è opposto, quindi due figure minori della società, e li fa diventare protagonisti… All’epoca in cui uscì Il giorno della civetta, anche se non tornavo con molta frequenza in Sicilia, so bene che l’atteggiamento era quello dei “fatti loro”… (p.28)
a cura di Paolo Squillacioti e Marcello D’Alessandra

Troppo poco pazzi - Leonardo Sciascia nelle libera e laica SvizzeraGiovedì 7 aprile,alla Biblioteca Cantonale di Lugano(Svizzera),in viale Carlo Cattaneo,6, alle ore 18.00 Claude Ambroise e John Noseda, introdotti dal saluto del Direttore della Biblioteca,Gerardo Rigozzi, e del Presidente degli Amici di Sciascia,Renato Albiero, hanno presentato il primo volume della collana "Sciascia scrittore europeo" dal titolo Troppo poco pazzi – Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, alla presenza del curatore, Renato Martinoni. La serata luganese,svoltasi in una sala gremita di pubblico, ha toccato molti aspetti della figura e dell'opera di Leonardo Sciascia,a riprova della viva memoria dei rapporti stabiliti dallo scrittore in terra ticinese dopo l'assegnazione del Premio Libera Stampa nel 1957(Croci, Filippini, Fontana, Grandini, Soldini, e altri).

Venerdì 8 aprile, il volume è stato poi presentato a Milano alle ore 17.00 presso la Libreria Pecorini,in Foro Buonaparte 48,da Bruno Pischedda,alla presenza del curatore Renato Martinoni,dopo un saluto del Presidente degli Amici di Sciascia,Renato Albiero. E' seguito un vivace dibattito,stimolato da Loredana Pecorini che ha permesso di raccogliere  diverse testimonianze dal pubblico dove erano presenti molti amici dello scrittore.  

Le due serate  hanno concluso il ciclo di presentazioni inaugurato l'11 marzo scorso a Firenze alle 17.30, al Gabinetto G.P.Vieusseux (Sala Ferri) con l'intervento di Arnaldo Bruni introdotto dal saluto di José-Luis Gotor e da Carlo Fiaschi, segretario degli Amici di Sciascia e dove è stato dato l'avvio ufficiale della collana "Sciascia scrittore europeo" che segna la collaborazione tra gli Amici di Sciascia e l'editore fiorentino Leo S.Olschki.

 

L’ultimo fascicolo della rivista di italianistica "La rassegna della letteratura italiana" (CIV, serie IX, n° 2, luglio-dicembre 2000) ospita nella Rassegna bibliografica (Novecento) una serie di recensioni e schede su articoli e libri di argomento sciasciano tutte a firma di Giuseppe Traina. Gli studi recensiti sono: Antonio Di Grado, "Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta". Per Sciascia dieci anni dopo, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 1999; Olivia Barbella, Sciascia, Palermo, Palumbo, 1999; Ottorino Gurgo, Sciascia, l’illuminista cristiano, Roma-Sulmona, Fondazione Ignazio Silone, 2000; Massimo Onofri, In nome dei padri. Nuovi studi sciasciani, Milano, La Vita Felice, 1998; Paolo Squillacioti, Giovanni Raboni uno e trino, "Belfagor", LV, 31 luglio 2000, pp. 476-79; Da un paese indicibile, a c. di Roberto Cincotta, Milano, La Vita Felice, 1999 ("Quaderni Leonardo Sciascia", 4); Leonardo Sciascia, un uomo che non si stancò di ragionare, "Segno", 209, 1999; Leonardo Sciascia. La memoria, il futuro, a c. di Matteo Collura, "Almanacco Bompiani", 1999 (segnalato soltanto il titolo di Gaspare Giudice, Leonardo Sciascia, lo stemma di Racalmuto, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 1999).
Recensione a "L'enciclopedia di L. Sciascia: caos, ordine e caso" pubblicata sulla rivista «Secondo Tempo» (Napoli, Marcus edizioni)

Paul-Louis Courier, Pamphlets, a cura di Giuseppe Caronna, trad. dal francese di AA. VV., Palermo, Edizioni della Battaglia, 2002, pp. 215, euro 15


||Tornano finalmente in libreria, se ne sentiva da troppo tempo la mancanza, i Pamphlets di Courier - sommo grecista, ufficiale dell'esercito napoleonico, ricco possidente della Turenna (vignaiolo, egli amava definirsi), ma soprattutto libellista. Il merito di questo ritorno è delle Edizioni della Battaglia, che con questo libro ha scelto emblematicamente di aprire una nuova promettente collana, "I Cunei". Autore pressoché sconosciuto in Italia, dove i pochi che lo hanno letto molto lo hanno amato: Trompeo, Cajumi. Sciascia, più di recente, che vi scoprì, adolescente, le ragioni più profonde della sua vocazione di scrittore: la scrittura, resa tagliente dall'ironia, contro i soprusi, i privilegi, le ingiustizie del potere, e in difesa del diritto, della verità; la scrittura come buona azione - colpi di penna come colpi di spada, dirà lo scrittore siciliano a proposito del suo maestro francese, in una totale identificazione. Nei Pamphlets la polemica - irriverente, feroce, documentatissima - diviene pregevole pezzo di letteratura, mirabile lezione di stile. Una lunga prefazione, del curatore, precede gli scritti di Courier, quasi un secondo libro nel libro: si direbbe di troppo, ed è invece un'avvincente narrazione delle vicende di questo rompiscatole di talento. Averne ancora di scrittori così, almeno non dimentichiamo di leggerli, di questi tempi come il pane ne abbiamo bisogno.

Marcello D'Alessandra

Scheda apparsa su "L'Indice dei Libri del Mese", ottobre 2002

Pietro Milone, L’udienza – Sciascia scrittore e critico pirandelliano, Manziana, Vecchiarelli, 2002, pp. 271, euro 20,66


||La sterminata bibliografia critica sciasciana si arricchisce di un libro davvero di gran pregio, a pieno titolo da inserire tra quei pochi che possono dirsi fondamentali in questo campo – è bene dirlo subito e perentoriamente, a parziale risarcimento di un’attenzione che non è stata pari a quella che il libro avrebbe meritato. Il tema affrontato da Pietro Milone è cruciale, oltre che riepilogativo dell’intera vicenda umana e letteraria dello scrittore di Racalmuto: il suo rapporto con Pirandello, contrastato dapprima, nel tentativo vano di sfuggire a quel pirandellismo di natura nel quale scopriva di vivere, conciliato infine nella serena comprensione delle somiglianze, in un rapporto dallo stesso scrittore paragonato a quello del figlio col proprio padre. L’ininterrotto dialogo sul piano letterario è testimoniato dai suoi primissimi scritti critici, fino al conclusivo Alfabeto pirandelliano, nell’anno della morte. E così nella narrativa, dove i rimandi all’opera dell’illustre conterraneo sono costanti, ora più ora meno scoperti, e fino alla fine, con Una storia semplice. Un tema - e non poteva essere altrimenti - già ampiamente dibattuto dalla critica, tanto più facile, quindi, cadere nel già detto, e per il lettore pensare, ma solo per pigrizia, a questo libro come a un onesto e se va bene dettagliato resoconto. Se non fosse che nessuno al pari di Milone ha dedicato attenzione all’argomento, negli ultimi anni, e questo libro ne è una magistrale testimonianza, fin nelle note, densissime, quasi un testo parallelo.

Il saggio ripercorre le vicende e le fasi della critica pirandelliana e più in generale della scrittura di Sciascia, specialmente dopo la svolta ideologica, estetica e critica registrata alla fine degli anni Settanta, per giungere all’inconcluso, testamentario, “discorso da fare”, abbozzo di un’estetica del paradosso, la cui ricostruzione, secondo Milone, consente di gettare nuova luce sulla conclusiva poetica dello scrittore e sul suo rapporto con Pirandello.

Due cose Milone, preliminarmente, nella Premessa tiene a precisare. La prima: il critico Sciascia, tanto più quando cercava di esserlo “di professione”, si trasformava in personaggio che non si sottraeva ai condizionamenti ideologici dell’epoca; quando invece da scrittore, da uomo solo, egli leggeva Pirandello – in apparenza tendenziosamente, in realtà liberamente – finiva per andare al cuore dell’autore. La seconda: su Sciascia perdura, nonostante alcuni recenti e fondamentali studi, un’incomprensione critica che ha finito per imprigionarlo dentro la Forma di scrittore illuminista, dando corso a uno sciascismo che non è meno tenace del pirandellismo dal quale Sciascia tentava di liberare Pirandello.

La svolta intervenuta nella biografia intellettuale di Sciascia – dall’iniziale concezione di letteratura come rispecchiamento della realtà, secondo il modello gramsciano-lukàcsiano, alla successiva concezione platonica, con la realtà che finisce per essere una copia più oscura e degradata dei suoi archetipi letterari - è stata analizzata da Massimo Onofri, Milone qui la riprende e integra, in rapporto a Pirandello, e su di essa impernia il suo studio.

Tra i suoi meriti maggiori, l’avere sottolineato l’influenza del modello interpretativo di Giovanni Macchia, nella lettura dell’opera pirandelliana, in quella particolare chiave spiritica dei personaggi che consentiva a Sciascia di misurarsi con quell’oltre verso cui si sentiva sempre maggiormente attratto (in compagnia di Borges, di Savinio, e di Pascal).

Si può discutere se l’opera spartiacque, nella narrativa sciasciana, a testimonianza della svolta, sia Todo modo, come da Milone indicato, oppure Il contesto, di qualche anno precedente, dubbi non rimangono invece sulla ricchezza di un libro che tocca un sorprendente numero di temi. Basterà qui rammentare, tra i tanti, quello della concezione di verità per Sciascia, e tra le molte sollecitazioni che il libro offre, particolare attenzione merita quella che suggerisce di studiare i rapporti con Kafka, pressoché inesplorati, ancora oggi, dalla critica sciasciana.

La scrittura come tortura, rileva bene Milone, per lo scrittore Sciascia “ingegnoso nemico di se stesso”, ma c’è anche, al contempo, una felicità dello scrivere, un prendere diletto, nell’autore del Giorno della civetta, tanto che amava richiamarsi al motto di Montaigne, “non faccio niente senza gioia”: l’ennesima antinomia, che bene poteva aggiungersi alle altre, in quell’estetica del paradosso nel libro così bene delineata.

Le conclusioni cui giunge la ricerca di Milone nascono sotto il nome di Manzoni e Pirandello (col conclusivo primato – val la pena ricordare - riconosciuto da Sciascia al secondo): “Sciascia è divenuto pirandelliano perché, manzonianamente convinto dell’esistenza di una verità assoluta, ha colto dell’opera di Pirandello non solo il più appariscente lato scettico-relativista (tendente al nichilismo ontologico sottolineato da Di Grado), ma il, forse più nascosto, lato opposto del rapporto con l’oltre sul quale si può fondare l’affermazione della letteratura come assoluto”.

Marcello D'Alessandra

Recensione apparsa su "Stilos" del 9 settembre 2003

Leonardo Sciascia, L’adorabile Stendhal (a cura di Maria Andronico Sciascia e con un saggio di Massimo Colesanti), Milano, Adelphi, 2003, pp. 225, euro 12,00

Chiamare predilezione quella di Sciascia per Stendhal è dire poco: tra gli scrittori il più amato, in una semplice parola - “adorabile” – l’autore di Todo modo ha concentrato il suo sentimento per il francese: “Può darsi che questa parola io l’abbia qualche volta scritta, e sicuramente più volte l’ho pensata: ma per una sola donna e per un solo scrittore. E lo scrittore – forse è inutile dirlo – è Stendhal”.
                Per le amorevoli cure di Maria Andronico, vedova dello scrittore, escono ora in volume gli scritti stendhaliani di Sciascia, ordinati per temi, sotto il titolo L’adorabile Stendhal. Il volumetto si completa di una Nota, a firma della curatrice, in cui sono indicati i titoli delle pubblicazioni che originariamente li avevano accolti; e di uno Scaffale stendhaliano, in cui si elencano i volumi posseduti da Sciascia, molti in francese, delle opere di e su Stendhal: un’incursione mai prima possibile per il comune lettore, e ricca di suggestioni; infine, un bel saggio di Massimo Colesanti, per quanto non troppo diverso da precedenti suoi scritti sull’argomento. Un libro che ha il merito di riproporre all’attenzione la storia di una passione, quella di uno scrittore per un altro scrittore, che a più livelli si stratifica e variamente, ma sempre nella gioia, trova espressione,  e le cui implicazioni, gli sviluppi, la critica sciasciana ancora non del tutto ha esplorato.
Pure, registrati i meriti, è impossibile tacere sulle contraddizioni in cui la vedova scivola a proposito di questioni editoriali, quelle riguardanti le opere del marito (le cui volontà testamentarie vietano – come si sa - di pubblicare i suoi scritti sparsi, mai editi in volume). Una contraddizione che sembra perpetuare quella del motto contraddisse e si contraddisse, dallo scrittore a suo tempo assunto a vessillo della propria esistenza. Il testo breve, intitolato “Stendhaliana”, la cui provenienza è indicata con un non meglio precisato “Di Leonardo Sciascia”, tradisce non tanto le volontà testamentarie del marito, quanto la rigida osservanza degli eredi a quelle stesse volontà – ligi soltanto con gli altri nel seguirle, dispensandosene di tanto in tanto. E c’è un precedente: la pubblicazione di Per un ritratto dello scrittore da giovane (Adelphi, 2000), sempre a cura della vedova dello scrittore, con testi fino ad allora mai editi in volume. E non si vuole qui dire che sia un male disattendere alle volontà dello scrittore, anzi (i precedenti sono tanti e illustri: dovrebbero pure insegnare qualcosa), soltanto si rileva la contraddizione, stridente molto alla luce della recente causa intentata dagli eredi dello scrittore all’editore Sellerio, per la pubblicazione del meritorio Leonardo Scianca scrittore editore a cura di Salvatore S. Nigro.
Il discorso stendhaliano, in Sciascia – come ora meglio si può apprezzare - si declina in tre grandi filoni - seguendo le indicazioni di Ricciarda Ricorda -: il proprio personale stendhalismo; l’aspetto più propriamente critico riferito alle opere del francese; le riflessioni sulla letteratura, suggerite da un’opera, per Sciascia al pari di quella di Montaigne, in cui labile è il confine tra vita e letteratura, e il cui perno è la verità.
Stendhal e la Sicilia è il testo capolavoro del suo discorso stendhaliano, quello in cui più si esalta la sua vena narrativa, e più spiccata appare l’imitazione del modello. Sulla base di alcuni passi in cui Stendhal racconta di essere andato in Sicilia, senza esservi mai veramente andato (una delle sue innumerevoli mistificazioni), e sulla base dei suoi frequenti riferimenti a cose siciliane, nonché sul desiderio di voler intraprendere quel viaggio, Sciascia ricostruisce, stendhalianamente, un viaggio mai compiuto: nel gioco delle ipotesi fantasiose, sempre condotte con rigoroso scrupolo.
                Stendhal rappresenta per Sciascia il costante punto di riferimento, nella vita e nella letteratura: la sua conoscenza degli uomini, del cuore umano, ritenendola “totale e assoluta” (come dichiarato da Sciascia in un passo di Nero su nero, quando, “per la prima volta”, registra di trovarsi in disaccordo con l’autore della Certosa di Parma – un vero peccato che il passo sia stato escluso dal volumetto).
E’ frequente il caso, nei suoi scritti, che uno scrittore, un fatto (magari uno di quei fatti diversi, oggetto di tante Cronache stendhaliane o di Cronachette sciasciane) sia interpretato, infine si riveli nel segno di Stendhal. Emblematici sono i casi di Napoleone e Casanova, le cui vicende sono rilette in chiave stendhaliana. E di Napoleone sia sottolineata l’ammirazione dello stesso Sciascia: tanto poteva l’amore per Stendhal, l’immedesimazione, al punto da ammirare un tiranno.
                Nella concezione che aveva Sciascia della letteratura come sistema di oggetti eterni, Stendhal è posto al centro: come il sole che illumina i tanti diversi pianeti; ovvero gli scrittori, i libri, l’universo sterminato che è la letteratura.


Marcello D’Alessandra

        
Recensione apparsa su “Stilos” del 16 dicembre 2003