Durante la guerra, mentre mio padre era militare, mia madre e io abbiamo trascorso lunghi periodi a Sonvico. In seguito abbiamo continuato a render loro visita regolarmente.
Questa casa aveva mi affascinava, come tutte le cose misteriose affascinano i bambini. Tutte quelle stanze, la scala che scendeva in cantina in cui c’erano due vasche per la pigiatura del vino. La botola nel soffitto del bagno. Una volta mi ci chiusi a chiave e la aprii. Ma mi spaventai del buio e delle fitte ragnatele e la richiusi subito.
E il giardino, con tutti quegli alberi e fiori. Nella casa in cui abito ora ho piantato la passiflora. Passavo ore a osservare le galline nel grande pollaio.
Alla casa di Sonvico ho dedicato infatti la prima parte, che trascrivo qui, del mio libro d’artista
Le mie case
Rosa
Il vialetto con la ghiaia
la spalliera di passiflora
i vasi con le fucsie
gli alberi di amarene
il campo con le fragole
la fossa dei lombrichi per la pesca.
In questo giardino ho vendemmiato
per anni
nel dolce sole d’ottobre.
La stanza buia dei libri
polverosi.
La veranda con le nocciole stese a seccarsi.
I rami lucenti
appesi alle pareti di cucina
il camino,
l’odore del legno bruciato,
la sala
con i mobili intarsiati,
i cuscini di velluto,
le tazzine dorate
di Limoges,
i dischi di Caruso,
la carta patinata di tutti quei Life
scritti in inglese.
Conservo
insieme ai ricordi
l’anello con l’acquamarina
portato dall’America
quando lui tornò
per sposarsi,
e un libro sulla Spagna
che sapevo
non avrei restituito
mai.
Mi sono dilungata tanto, prima del racconto vero e proprio, per dimostrare i miei legami con Sonvico.
Dunque quando ho sentito che Claude Ambroise abitava a Sonvico, mi sono sentita molto eccitata. Ho verificato su internet la sua biografia. Tra le varie cose ho letto che da poco aveva tenuto una conferenza al Torchio, associazione culturale del posto. Mi sono ricordata che mio padre aveva esposto in quella sede nel 1987. Ho cercato subito tra le carte il dépliant di questa mostra. L’ho unito a un esemplare del libro Le mie case, e a uno scritto in cui raccontavo in breve quanto sopra. Iniziavo con la frase “Lei pensava di venire a Palermo e trovare tracce di Sonvico?” E finivo con una piantina che indicava la posizione della casa.
Finalmente arriva il giorno del convegno.
Quasi trepidante mi faccio presentare subito a Claude Ambroise, parliamo di Sonvico, dei miei legami con Sonvico e del motivo per cui lui fosse andato ad abitare proprio lì. Mi racconta che insegnava a Milano e che ha sposato una milanese. I genitori della moglie, lombardi, una volta in pensione avevano deciso di trasferirsi in Ticino e comperarono una casa, in stile vagamente coloniale. Morti i genitori e andato in pensione pure lui, parlando con la moglie, decidono di approfittare della casa che avevano ereditato per andare a viverci. Gli chiedo in quale zona abita. Mi dice: “Lei ricorda dove è la casa per anziani? Ecco, lì, poco più in su”. Apriamo il mio pacchettino, gli mostro la piantina e lui rimane scosso come me: la casa sembra essere la stessa. Non c’è la sicurezza, ma… sembra. “ Stasera telefono a mia moglie, che ne sa di più al proposito”.
La mattina dopo arrivo a convegno già iniziato e mi siedo dove capita. Dopo un secondo mi sento battere sulla spalla. Era Claude Ambroise, seduto dietro a me, che mi faceva ampi cenni di assenso. Sì, la casa è proprio la stessa. Era quella degli eredi Antonio Giacomazzi.
Poi abbiamo parlato a lungo. Pur nella sua riservatezza pareva eccitatissimo anche lui. Continuava a ripetere: “Ma questo è un romanzo! E’ incredibile!” L’ho abbracciato.
La casa era stata ristrutturata da un piccolo imprenditore luganese di nome Giacomazzi, evidentemente uno dei nipoti eredi.
Mi ha invitato ad andare a trovarlo la prossima volta che mi recherò in Ticino.
Altra coincidenza: nella sua relazione Claude Ambroise ha ampiamente citato Gli zii d’America, di quello che mandavano a casa !
Palermo, 22 novembre 2010 Carla Horat
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