Sciascia difese Moro 

L’intervista – e il titolo, per una volta, corrisponde al contenuto – è dell’agosto 1978, al quotidiano “La Sicilia”. Leonardo Sciascia si rifaceva a una battuta contenuta nel suo “Il Contesto”: “Tutti i nodi vengono al pettine”, dice uno. L’altro risponde: “Quando c’è il pettine”. Il caso Moro, diceva Sciascia, “è un grande, terribile nodo venuto al pettine. Il problema è che questo nostro paese riesca a trovare il pettine. Per conto mio, direi di averlo: un piccolo pettine, un pettine tascabile. Anche se il nodo è troppo grosso, troppo diabolicamente complicato, sto tentando di scioglierlo: la menzogna genera menzogna, l’Italia è un paese senza verità: bisogna rifondare la verità se si vuole rifondare lo Stato. Se non riusciamo ad arrivare alla verità sul caso Moro siamo davvero perduti”.  


L’immagine del Presidente DC tratteggiata dallo scrittore siciliano nell “Affaire ha avuto successo, ma contiene molti errori e forzature. Per esempio la sua presunta abilità nel sottrarsi agli interrogatori dei carcerieri.

Nel considerare a trent’anni di distanza L’affaire Moro, si ha l’impressione che Leonardo Sciascia abbia vinto. L’immagine del Presidente democristiano consegnata alla storia e al sentire comune è la sua. Ci parla di un prigioniero condannato a morte da un duplice potere: terrorista e “statolatrico”, ma che tuttavia sa battersi con ostinazione fino alla fine, sollecitando lettera dopo lettera il nostro sdegno umanamente solidale. Per essere chiari: è la sua e non quella di Arbasino che nel contemporaneo dossier dal titolo “In questo stato” raffigurava Moro come uomo non idoneo a ricoprire cariche pubbliche, incapace di immolarsi sull’altare del bene collettivo.

Il Corriere della Sera, 25 ottobre 2006
 
Un saggio di Giovanna Lombardo ricostruisce il lavoro editoriale dello scrittore e i difficili rapporti con Laterza, Bompiani e gli altri
 
Sciascia. Il caso Montalbano, la mafia e le accuse di connivenza di un autore bocciato
 
Prima Laterza, poi Einaudi, Bompiani, Sellerio e infine Adelphi. Sono questo gli editori di Leonardo Sciascia, in un arco cronologico che occupa quarant’anni circa, tra pubblicazioni e consulenze. «Il lavoro editoriale di Sciascia rappresenta un aspetto fondamentale della sua biografia intellettuale»: è quanto sostiene la studiosa Giovanna Lombardo in un saggio appena uscito nella rivista La Fabbrica del Libro, bollettino di storia dell’editoria italiana pubblicato da Franco Angeli. Il saggio ripercorre il carteggio con Bompiani, ma il lavoro di dottorato della Lombardo risale indietro agli anni Sessanta andando a individuare i molti momenti difficili dei rapporti editoriali di Sciascia. Che non furono mai rapporti di consulenza ufficiali, anzi si trattò quasi sempre di scambi piuttosto tormentati che ebbero spesso il carattere di «appuntamenti mancati» soprattutto per il temperamento di Sciascia poco incline al compromesso. Sin dal ‘56, quando da Laterza apparve Le parrocchie di Regalpetra. È nel ‘61 che Sciascia propone un’«antologia del notabile siciliano», che raccolga opere letterarie, discorsi, cronache e dichiarazioni amministrative dal 1848 al dopoguerra. Lo scrittore comincia a muoversi per archivi e a mettere insieme materiali su materiali, mettendo a fuoco il lavoro con Vito Laterza, che aveva accolto il progetto con entusiasmo. Quando però lo stesso Laterza gli chiede di trasformare l’antologia a cura di Sciascia in un saggio firmato, lo scrittore abbandona perché, scrive, «la materia mi si raffredda tra le mani». Eppure, c’era già un indice bell’e pronto: i notabili e la guerra, i notabili e il fascismo, i notabili e gli americani, eccetera, con atti ufficiali sul latifondo, sulla questione meridionale, sul separatismo, sulla mafia, sull’industria dello zolfo.


Parte del materiale raccolto confluirà, nel ‘67, nel libro La morte dell’Inquisitore per il quale considera ancora Laterza l’editore ideale. Il che dimostra quanto Sciascia fosse editorialmente consapevole. Capace di distinguere le sedi più adatte per ogni pubblicazione. La Lombardo segnala una nutrita serie di progetti non realizzati, che diventano però introduzioni per altri libri, note, saggi. Altro capitolo è quello dei pareri di lettura. È ancora in contatto con Vito Laterza, nel ‘63, quando Sciascia esprime il suo «modesto parere negativo» a proposito di un manoscritto sulla mafia firmato dal deputato regionale comunista Giuseppe Montalbano: mette in dubbio che l’«ossessione» dell’autore nei riguardi della mafia sia davvero «genuina» ed esprime il sospetto che il tutto sia dettato da «malafede»: «c’è qualcosa che non va». C’era, al di là delle valutazioni sul libro, un «caso personale» piuttosto scottante: il Montalbano aveva accusato Sciascia e un deputato comunista, Luigi Cortese, di aver agito sul colonnello dei carabinieri Renato Candida (autore di un saggio sulla mafia che gli avrebbe procurato poi l’allontanamento da Agrigento), per fargli tacere le collusioni con la mafia di alcuni comunisti e di «certi notabili democristiani». Sciascia, a scanso di equivoci, confessa a Laterza questo precedente e definisce senza mezzi termini l’accusa «assolutamente pazzesca», senza negare che «simili allucinazioni» gettano una luce di sospetto anche sul libro in esame. «Dunque», aggiunge Sciascia nel parere indirizzato a Laterza, «Lei tenga di questo mio giudizio un conto del tutto relativo, "personale"». L’episodio dovette lasciare il segno nello scrittore se a distanza di anni, in due elzeviri dell’82 e dell’88 (poi raccolti in A futura memoria), ricordando l’amicizia con Candida, Sciascia volle tornarci sopra, come se la ferita di quella calunnia non fosse ancora del tutto risanata. Montalbano, penalista e professore universitario, è stato autore di saggi sulla criminalità, tra cui, nell’82, Mafia, politica e storia dedicato al generale Dalla Chiesa, fu sottosegretario, deputato regionale del Pci, poi dimessosi dal partito. Nel ‘64 è Sciascia a proporre un libro, che però Laterza rifiuta: si tratta di un saggio dell’antropologo siciliano Antonino Uccello su Carcere e mafia nei canti popolari siciliani. Neppure del tutto soddisfacente sarà, nel ‘67, l’unica collaborazione con Mursia, per l’antologia Narratori di Sicilia che Sciascia curerà con Salvatore Guglielmino: il volume esce ma lo scrittore lamenta come «riduttiva» la destinazione scolastica: «Si sarebbe potuto fare di più e di meglio», scriverà. Benché fosse un autore di punta dello Struzzo, non dà molti frutti la sua consulenza per l’Einaudi.
Tra le pochissime riunioni editoriali a cui Sciascia partecipa personalmente, ce n’è una del ‘72 per la quale si presenta in veste di consulente con un puntuale elenco di progetti rimasti lettera morta. Un volume di Giuseppe Pitrè sulle carceri durante l’inquisizione a Palermo, che non piace a Einaudi, uscirà da Sellerio nel ‘77. Una raccolta di scritti di Capuana viene abbandonata per un eccesso di scrupolo: gli viene il dubbio di non saperne abbastanza. Nel ‘71, Calvino gli chiede un parere di lettura su un romanzo dello scrittore colombiano German Espinosa. Il libro viene sottoposto a Sciascia non senza una punta di malizia. Scrive Calvino in una scheda di lettura: «Se Sciascia avesse dato sviluppo alla componente spagnolesca-barocca che invece ha sempre soffocato avrebbe scritto libri più vivi. In questo senso Espinosa può servire a Sciascia rimandandogli una possibile immagine barocca di se stesso». Sciascia ne darà un parere moderatamente positivo: «Bello e interessante anche se un po’ congestionato». Il libro uscirà con il titolo Le coorti del diavolo. Siamo nel ‘76 quando si affaccia un progetto, a cura di Sciascia, su cui Giulio Einaudi si dice entusiasta: si tratta di un volume che raccolga i materiali sulla morte di Pasolini apparsi su quotidiani e riviste. Titolo proposto dall’editore: La seconda morte di Pier Paolo Pasolini. Niente da fare, però, ancora una volta. La lista dei libri di Sciascia apparsi da Einaudi, come si sa, occupa un arco di tempo più che ventennale. Ma anche qui, come si vede, gli «appuntamenti mancati» sono parecchi. Il carteggio con Bompiani, dall’82, rivela il pressante ma vano desiderio dell’editore milanese di portare tutte le opere di Sciascia nella sua scuderia: desiderio che si realizzerà solo per La strega e il capitano, nell’85. Né Sciascia cederà alla richiesta di diventare un consulente stabile e regolare. Andrà in porto, invece, qualche libro d’altri da lui fortemente voluto, ma anche diverse importanti curatele che rappresentano per lo scrittore luoghi sentimentali e passioni intellettuali. Come le Opere di Brancati, gli Scritti dispersi di Savinio, l’introduzione alla Storia della Colonna Infame, l’Almanacco Pirandello.
Ciò non toglie che anche con Bompiani, che nell’83 scriverà a Sciascia ricordando un vecchio incontro milanese «con un occhio ilare e uno lacrimoso», le cose non sempre funzionarono a meraviglia. Per esempio, quando lo scrittore propone un’antologia «di quel vero e proprio sottogenere letterario sempre ignorato che è la lettera di raccomandazione». L’impegno per un libro intitolato Il latore della presente cadrà quando Sciascia si accorge che l’impostazione del volume e la scelta dei documenti (curata da Sergio Coradeschi) va in una direzione che non gli piace. Per Sellerio, il discorso è diverso, ma è già noto grazie al lavoro di Salvatore Silvano Nigro.
 
Paolo Di Stefano

 Francesco Izzo ci trasmette un articolo (il primo, nove anni dopo l'inizio della manifestazione) che Grafica d'arte ha deciso di consacrare all'ultima edizione del Premio Sciascia la cui mostra conclusiva termina il 10 giugno 2007 al Castello Sforzesco di Milano.


 Grafica d'Arte n°70-2007

Per andare a Montedoro a insegnare religione, don Angelo Rizzo non poteva che passare, ora sono quarant'anni, davanti alle cave che erano state il rifugio di fra' Diego La Matina, l'eretico assassino dell'Inquisitore. Ma più che il monaco delinquente, il futuro vescovo di Ragusa vedeva apparire tra gole e giogaie l'ultimo eretico vivente - quel Leonardo Sciascia di civile e altrettanto tenace concetto impegnato nelle prime incursioni nei territori clericali - che era devoto di Montaigne, scettico al suo pari, e credente, come "il piccolo giudice" del suo futuro Porte aperte, in un giusnaturalismo di fede etica e rensiana. Un collega di Lettere che insegnava anch'egli a Montedoro, cugino di Sciascia, lo aveva accompagnato a casa sua, cosicché don Angelo aveva conosciuto un laico che teneva sul comodino il Vangelo e che al vescovo Ferraro di Agrigento andrà a donare un prezioso calice d'argento (di cui il prelato si servirà il giorno dei suoi funerali, celebrati con ben sette sacerdoti in paramenti da messa cantata): una coscienza pascaliana che con i preti di Racalmuto cercherà continuamente il dialogo in un instancabile andirivieni di riconoscimenti e sconfessioni che riguarderà anche lui, don Angelo, al culmine della polemica che nell'83, vent'anni fa esatti, li farà incontrare all'ombra della nascente Base missilistica di Comiso.
Don Alfonso Puma, l'arciprete della Matrice, davanti alle cui porte istoriate termina il Corso Garibaldi dove Sciascia continua oggi a tenere in un bronzo il suo passo lento e la sua grinza ironica, ricorda quando davanti a un suo quadro - un uomo nudo che esce da una tomba e si guarda attorno - Sciascia commentò: "Potrei essere io", dichiarazione presa da don Alfonso come atto di fede nella resurrezione. E don Salvatore Scimè, gesuita, menò vanto fino all'anno scorso, quando è morto, di avere da direttore della Scuola di teologia di Modica conferito al compaesano Nanà Sciascia il diploma di assistente sociale honoris causa da lui preferito, in segno di amicizia, alla laurea ad honorem già pronta per lo stesso giorno. Per il resto Sciascia ha sempre "inseguito preti cattivi" come confessa in Dalle parti degli infedeli. Tali furono per esempio padre Arrigo e padre Casuccio. Don Arrigo gli chiese una prefazione a un suo libro e Sciascia esortò don Puma a scoraggiarlo dal pubblicare, "per il bene della categoria", gli disse, con riferimento ai preti e non agli scrittori; e a don Casuccio rimproverò il sostegno che dal pulpito profuse alla candidatura a sindaco del nipote.



Don Angelo Rizzo ebbe invece trattamento ben diverso. Quando insegnava Religione alle Magistrali di Caltanissetta, Sciascia (che da buon padre entrava in ansia quando le figlie tardavano a rincasare) faceva la fila con gli altri genitori nel giorno di ricevimento per chiedergli, amabile e rispettoso, che profitto ottenesse la figlia nella sua materia, a riprova che la religione non era tenuta da lui in basso conto, come era possibile attendersi da un illuminista di pasta dura. Si incontravano anche nella Biblioteca di Caltanissetta, comportandosi come i porcospini di Pascal, che reiterano come in un rito il gesto di avvicinarsi in cerca di calore e di respingersi appena sono punti. Nacque una conoscenza che si lasciò tentare dall'amicizia. Rizzo ricorda oggi (nel suo letto di infermo, dove ha adagiato il corpo ma non la mente, ancora vivida e vigile) "lunghe e illuminanti conversazioni" e conserva memoria di un'amicizia intesa "non nel senso della vecchia sapienza romana, del volere e non volere le stesse cose, ma di un rispetto profondo delle idee dell'altro". Un'amicizia a misura di honnete homme che arriva presto a un bivio: don Angelo viene nominato vescovo di Ragusa dove presta sempre più orecchio alle ragioni del primato della Chiesa sul secolo mentre Sciascia si radica al poggio della Noce, nell'agro racalmutese, da dove aguzza la vista sull'Italia osservando la palma risalire il continente per poi tornare a scrutare le cose di Sicilia, restringendo lo sguardo a Comiso, quando la Nato trova la prateria buona per i suoi missili. L'amico Bufalino è solo a officiare il battesimo di Cruisetown e a protestare contro "i nuovi barbari", soldati della sventura e santoni della pace, "presunti falchi e presunti colombi che sono venuti da lontano e hanno sbagliato tutto: passo, accento, entrata, battuta". Sciascia corre al suo fianco.
L'occasione si presenta nel 1982: Raniero La Valle va a trovarlo alla Noce e lo invita, in qualità di deputato siciliano, a un convegno da tenersi a Ragusa e Comiso il primo maggio, festa dei lavoratori. Gli chiede di suggerire un titolo e intanto gli domanda: "Invece dei missili di cosa ha bisogno, secondo te, la Sicilia?". E Sciascia gli risponde: "Il titolo lo hai trovato tu stesso: 'Invece dei missili'". La Valle di rimando: "Ma non mi hai detto di cosa ha bisogno la Sicilia." Sciascia ci pensa e volge lo sguardo attorno: "Dell'acqua" dice, posando gli occhi sulla campagna riarsa. L'acqua è sempre stata l'ossessione di tutti i racalmutesi, che ne sono del tutto privi in vita per la perenne siccità e ne hanno troppa dopo morti per colpa delle infiltrazioni idriche che sono la croce del cimitero. Il sogno comune è di finire all'asciutto. "Per quel che mi riguarda - scrive Sciascia già nelle Parrocchie di Regalpetra - ho ragione di credere che non mi toccherà un posto asciutto: dovrebbero farmi un tabuto a forma di barca". E invece ha avuto un posto asciuttissimo. Per di più il genero ingegnere gli ha costruito un particolare tipo di loculo in cemento armato che impedisce la decomposizione del corpo.

Ma nell'82 Sciascia ha testa ai vivi e non ai morti, pur se deve compiangere un altro morto eccellente, Pio La Torre, ucciso il 30 aprile, il giorno prima di parlare a Ragusa sul tema della non violenza in Sicilia. E' qui che nasce l'idea, che si realizzerà nell'87, di scrivere un libro dove sciogliere una requisitoria contro la pena di morte entro un sentimento certamente religioso. "La non violenza - dice in un intervento dimenticato - va praticata e affermata a porte aperte" e, mentre ha già il titolo del libro, cita Montaigne che invita a tenere le case aperte come migliore difesa perché "ogni sentinella è simbolo di guerra". Sciascia invita a una "resistenza coerente, piena, fiduciosa; e vorrei dire anche religiosa". Resistenza soprattutto contro i missili di Comiso: "Non vogliamo i missili a Comiso perché non vogliamo essere parte di una qualsiasi alleanza militare, perché vogliamo che il nostro paese si difenda, come la casa di Montaigne durante la guerra civile, aprendo le sue porte e non chiudendole. Dire che non vogliamo i missili accettando il cosidetto ombrello dell'alleanza militare, se è un espediente tattico siamo alla menzogna, se è una sincera convinzione è un'insensatezza. Una cultura di pace, quale quella in cui vogliamo avviarci e avviare, non può nutrirsi né di espedienti né di insensatezze".
A giugno dell'anno successivo Sciascia lascia la Camera e a dicembre torna nel Ragusano per presentare a Modica un libro sulla Contea. C'è anche il vescovo Rizzo, che parla della pace. Sciascia, in suo omaggio, prende la parola e lo approva. Negli stessi giorni, in un'intervista al "Sabato", il vescovo si esprime sul tema parlando di "pacifismo unilaterale propagandato dai pacifisti che calano dal nord e determinato da una vera psicosi della paura e da una forma di isterismo collettivo e collegiale forse al vuoto di ideali". E Sciascia qualche giorno dopo bolla "il mondo del pacifismo esteriore e conclamato" giudicandolo "pittoresco e irritante". Non diversamente la pensa per la verità anche Bufalino che parla di "corte dei miracoli". Quando scoppierà la polemica, di lì a quale giorno, il vescovo si ricorderà dell'opinione favorevole resa da Sciascia a Modica e non riuscirà perciò a spiegarsi le dichiarazioni pronunciate contro di lui.

E' successo che nel frattempo mons. Rizzo fa una cosa che non piace a Sciascia: il 22 dicembre va nella Base di Comiso e benedice la posa della prima pietra della cappella intitolata a Cristo Nostra Pace. Ci sono anche le autorità militari d'oltreoceano che insieme con lui incidono nella pietra grezza ognuno la propria firma che il cemento custodirà solo per la breve stagione del riarmo. Sciascia (ad anno orwelliano alle porte e dunque nella profezia di una restrizione globalizzante della libertà in senso totalitario, dopo perdippiù un nuovo rifiuto di scarcerare Enzo Tortora), alza il suo indice inquieto e mai in quiete e, in un'intervista a "La Sicilia" del 31 dicembre, pronuncia poche parole. Bastano ad accendere la miccia: "E' la solita storia della politica della Chiesa che benedice anche le bandiere di guerra. E però le cose che la Chiesa fa in un senso o nell'altro ormai non contanto tanto. Bisogna chiedersi che rilievo hanno nella coscienza dei fedeli. Io credo che non ne abbiano perché non ci sono fedeli". Il 6 gennaio 1984 sullo stesso giornale mons. Rizzo replica con una causticità pari alla sua dottrina teologica: "La Chiesa ha sempre cantato i funerali dei suoi denigratori e dei suoi calunniatori. Vorrei ricordare a Sciascia quello che ha detto Paolo VI parlando all'Onu, e cioè che la Chiesa è esperta in umanità. Che poi la Chiesa non incida o incida meno, questo penso che sia soltanto un giudizio personale del professore Sciascia, perché vediamo che le chiese sono piene non di gente che non ha fede come lui osa pensare ma di gente che crede". Il 14 gennaio Sciascia, ricordando con conforto la longevità di Voltaire, vissuto fino a 84 anni, fa gli scongiuri al vaticinio del vescovo che spera in sostanza di avere notizia di suoi prossimi funerali: "Lascio ai cattolici di giusta inquietudine - capaci cioè di domandarsi e di domandare - una seria meditazione su questa frase di un loro vescovo. Per conto mio ne preferisco una faceta. Ed è questa: che se io morissi mentre è ancora fresca nella memoria dei lettori di questo giornale la frase del vescovo, i cattolici superstiziosi (e sono tanti) trarrebbero convincimento che Dio, preso atto delle parole del vescovo, abbia adottato il provvedimento che faceva al caso; mentre i laici superstiziosi (che non sono meno numerosi dei superstiziosi cattolici) al vescovo attribuirebbero patente di jettatore. Sicché al vescovo conviene ora pregare che la fine della mia vita vada un po' oltre, nel tempo, la memoria dei lettori di questo giornale".

Oggi mons. Rizzo non è più vescovo e nemmeno pentito: "Lo rifarei, ma non ne vado fiero perché credo nello sviluppo armonico delle nazioni. Con Sciascia, in privato, abbiamo poi chiarito. Gli dissi che era caduto in una trappola, perché quelli erano tempi in cui bisognava schierarsi. Sciascia, persona intelligente e onesta, nel suo intimo ha condiviso la scelta fatta da questo suo 'amico', coerente nell'adempimento del suo dovere di vescovo al servizio della verità e del suo popolo, pur in una crocifiggente situazione contingente in cui era costretto ad agire". Ed è allora chiaro, dalle parole di oggi del vescovo, quanto probabilmente gli disse Sciascia quando chiarirono: che irretito dall'obbligo di schierarsi imposto dalle circostanze era stato lui, il vescovo. Il quale non fa mistero di avere ricevuto anche la solidarietà pubblica del numero uno del fronte comunista di Comiso, Giacomo Cagnes, ex deputato, presidente del Comitato per il disarmo, capo indiscusso del movimento pacifista, e soprattutto antiamericano d'eccellenza: all'accusa rivolta al vescovo di avere impedito con il suo gesto la presa del potere comunale da parte del Pci, Cagnes disse duramente: "Il vescovo ha fatto il suo dovere". Forse furono le sue ultime parole famose, perché di lì a poco sua figlia si innamorò perdutamente di un soldato yankee e, andando a vivere in America con lui, portò con sé anche il padre. Che oggi, vent'anni dopo, è un americano felice e contento.

Articolo apparso su "Tuttolibri" del 19 aprile 2003

di Valter Vecellio

Leonardo Sciascia: il giorno della civetta"Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianc..., quaquaraquà...". Quante volte l'abbiamo sentita, e ripetuta noi stessi, la classificazione del genere umano che viene fatta da Mariano Arena, il mafioso de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, così ben interpretato nel film che ne ricavò Damiano Damiani da Lee J.Cobb? Nel film quel "piglianc..." diventa "ruffiani", per non incorrere nei fulmini della censura. Ma quella pagina, in entrambe le versioni, è diventata un classico". Il libro stesso può essere considerato un classico, ed è grazie a quel libro - e a quel film - se molti italiani presero consapevolezza che esisteva un qualcosa, una organizzazione criminale ramificata e antica, che si chiamava mafia e che i suoi adepti chiamavano "La cosa nostra".  

Il giorno della civetta in questi giorni compie cinquant'anni; e anche se parla di una mafia agricola, che ancora non si è urbanizzata, contiene validissime, utilissime indicazioni per l'"oggi". Sciascia lo pubblica da Einaudi nel 1961, ma lo scrive l'estate precedente, nella casa di campagna di Racalmuto dov'era nato: in quella casa della "Noce" dove scrisse tutti i suoi libri, d'estate, dopo averli a lungo pensati d'inverno. 

E' la storia di un "duello": tra il capitano dei carabinieri Bellodi - lo si chiama sempre per cognome, il nome non si sa - e il capomafia di una mafia di campagna, ancora non urbanizzata, Mariano Arena. Sciascia si ispira a un episodio realmente accaduto, il delitto di Accursio Miraglia, un sindacalista ucciso dalla mafia nel gennaio del 1947. Anche Bellodi è ricalcato su un carabiniere realmente vissuto: Renato Candida, autore tra l'altro di uno dei primi libri su Cosa Nostra, Questa mafia, libro ancora oggi interessantissimo e per tanti versi rivelatore. Proprio perché Candida aveva capito tante cose, forse troppe: dopo aver pubblicato il libro viene prontamente trasferito in Piemonte.
Nel recente libro di Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia, L’eredità scomoda. Da Falcone ad Andreotti. Sette anni a Palermo, a cura di Maurizio De Luca (Milano, Feltrinelli, 2001) l’ex-procuratore capo di Palermo e il sostituto procuratore della stessa Procura che ha lavorato a Marsala con Paolo Borsellino rievocano le vicende intorno alla nomina di Borsellino a procuratore di Marsala nel 1986 e alla polemica innescata dall’articolo di Sciascia sul "Corriere della sera" del 10 gennaio 1987, raccolto poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Si riproduce qui di séguito il testo alle pp. 15-16 del volume.
CASELLI: Mentre tu ti laureavi e vincevi il concorso, io dal 1986 al 1990 ho fatto parte del Consiglio superiore della magistratura. E sono stati anni contrassegnati da continui "casi Palermo". In particolare io facevo parte del Comitato antimafia del Consiglio. È stato questo il periodo in cui ho approfondito la mia conoscenza con Falcone; anche di Borsellino cominciai a occuparmi fin da subito al Consiglio, perché quasi come prima questione affrontammo la discussione sulla sua domanda per fare il procuratore della Repubblica di Marsala.
Il Consiglio superiore, di cui facevo parte per essere stato eletto come candidato di Magistratura democratica, si era appena insediato o quasi quando, sulla domanda presentata da Borsellino, a sorpresa ci furono delle divisioni. C’era da stabilire se nell’assegnare incarichi di alta responsabilità in territori insidiati dalla grande criminalità, come del resto prevedevano specifiche norme fino ad allora inapplicate, era finalmente arrivato il momento di premiare la professionalità dei candidati, la loro conoscenza reale dei problemi, la serietà dell’impegno. Oppure se si doveva continuare a procedere in maniera formalmente ineccepibile, ma per certi casi specifici inadeguata rispetto alla gravità della situazione, continuando a privilegiare criteri di selezione basati prevalentemente se non esclusivamente sull’anzianità. In Consiglio ci spaccammo, anche all’interno di molti gruppi, trasversalmente. Ci spaccammo, per esempio, noi di Magistratura democratica: eravamo in tre, io votai per Borsellino, gli altri due, che erano Elena Paciotti e Pino Borrè, si astennero, basando la loro decisione su argomenti certo sostenibili ma a mio giudizio troppo formalistici. Fino a quel momento eravamo stati sempre d’accordo e lo saremmo stati quasi sempre anche in seguito. In quel caso però non mi convinsero. Seguendo il principio, sempre rispettatissimo nel mio gruppo, di liberta di voto secondo coscienza, io votai per Borsellino e mi ritrovai quella volta in maggioranza: divenne lui il nuovo procuratore capo di Marsala.
Non ricordo se in quell’occasione o in tempi successivi mi capitò di parlargli direttamente della nomina. So di aver fatto una scelta giusta. Nonostante tutte le polemiche pubbliche che ne seguirono, compreso lo schierarsi contro Borsellino di Leonardo Sciascia, sicuramente male informato. Ma credo siano vicende ormai fin troppo note a tutti. Si trattò della famosa, e per me sempre dolorosa, polemica sui professionisti dell’antimafia, tra i quali Sciascia in un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" collocò, accanto al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, proprio Borsellino. L’accusa, sorprendente, era di strumentalizzare l’impegno contro la criminalità per acquisire personali vantaggi di carriera. E proprio la nomina a procuratore della Repubblica a Marsala, raggiunta da Borsellino scavalcando concorrenti con maggiore anzianità, diveniva in questo contesto la principale prova a carico, la conferma concreta delle contestazioni.
INGROIA: Ricordo anch’io molto bene quella polemica con tutti gli strascichi, anche le più scoperte strumentalizzazioni che si portò dietro. Ricordo che a Borsellino provocò dispiacere. Dispiacere e rabbia. Borsellino era sicuro, me lo disse più di una volta, che qualcuno che certamente non l’amava aveva fornito a Sciascia informazioni infondate e tendenziose. Ma Borsellino, se pur convinto che con quella polemica "era iniziata la fine" (come diceva lui) della stagione del pool di Palermo, non riusciva ad avercela con Sciascia, amava troppo i suoi romanzi sulla mafia. Per questo, più che ricordare quanto quella polemica lo aveva ferito, preferiva raccontare la sua "riappacificazione" con lo scrittore. Si incontrarono, si parlarono e si chiarirono. Borsellino si rasserenò.
 

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Leggi l'articolo di Juan Sànchez Torròn su "La Opiniòn" del 9 maggio 2008 in lingua spagnola di cui qui sotto la versione italiana.

 

A Eleonora e Agnese Moro
Il 9 maggio si compiono 30 anni dall’assassinio di Aldo Moro, avvenuto in Italia dopo 54 giorni di sequestro e una dolorosa polemica causata dalle lettere dell’onorevole che i terroristi mandavano alla stampa, in cui si plasmava la supplica ai propri compagni di partito per un negoziato che potesse salvargli la vita. Negoziati estremamente difficili, considerando le richieste eccessive di scambio di prigionieri da parte delle Brigate Rosse. La sensazione di muoversi su un territorio selvaggio ove nulla è ciò che sembra, pervade chiunque si accinga ad addentrarsi nel tortuoso campo della lotta terrorista, dei servizi segreti, degli interessi di partito, della legalità, della ragione di stato, della pietà verso un sequestrato condannato a morte, dell’impotenza delle autorità competenti per salvaguardare la vita della vittima: il tutto mescolato in un magma  da cui è particolarmente difficile trarre conclusioni in quanto i componenti sono mutuamente condizionati e non si puòscegliere un criterio senza tradirne un altro.

L'intera opera di L. Sciascia è stata suddivisa in accorpamenti diversificati, dando così luogo a distinzioni in merito alle diverse afferenze tematiche.
  1. La bibliografia completa degli scritti di Sciascia comprende
    l'indicazione delle opere e dei testi sciasciani: volumi, scritti dispersi su riviste e quotidiani, cure editoriali,  traduzioni e rifacimenti, introduzioni a volumi altrui,  edizioni non italiane delle opere sciasciane e delle riduzioni cinematografiche tratte dalle sue opere di narrativa.
  2. una bibliografia della critica sciasciana che raccoglie tutti gli interventi critici, pubblicati in volume o in rivista, sull'opera di Sciascia.
  3. una raccolta degli interventi parlamentari e politici di Sciascia: si tratta dell'indicazione degli interventi tenuti nella sede del Parlamento italiano in qualità di deputato nel gruppo parlamentare del Partito Radicale, ed in qualità di membro della Commissione d'inchiesta istituita dal Parlamento sull'omicidio di Aldo Moro.
  4. una raccolta degli interventi su stampa, radio e televisione limitatamente all'attività politica.
  5. una raccolta dei testi sull'arte, una delle grandi passioni dello scrittore. In essa sarà possibile verificare l'interesse di Sciascia per il mondo della pittura, della scultura e dell'incisione attraverso una bibliografia specifica che documenta dei suoi numerosi scritti apparsi su cataloghi d'arte e altre fonti.

La bibliografia caricata sul sito è il frutto di una ricerca pluriennale ,culminata nella pubblicazione del volume La memoria di carta -Bibliografia delle opere di Leonardo Sciascia (Edizioni Otto / Novecento, Milano,1998), strutturato in tre sezioni:

a. BIBLIOGRAFIA CRITICA (a cura di Valentina Fascia)

b. COME CHAGALL VORREI COGLIERE QUESTA TERRA- Leonardo Sciascia e l'arte- Bibliografia ragionata di una passione (a cura di Francesco Izzo)

c. LA PAROLA DI LEONARDO SCIASCIA -Dall'archivio orale e sonoro di Radio Radicale (a cura di Andrea Maori) 

I successivi aggiornamenti bibliografici ad integrazione del materiale di partenza sono stati realizzati in collaborazione con il Centro per l'orientamento bibliografico e per la documentazione dell'Università per Stranieri di Perugia diretto dal dott. Andrea Capaccioni che qui si ringrazia per la competenza e generosa disponibilità.

Quanto reperibile dunque sul Leonardo Sciascia Web rappresenta ad oggi (2008) il tentativo più strutturato per rendere ragione di un corpus bibliografico ancora lungi dalla completezza seppure risultato di una  ricerca lunga, avente ad oggetto materiale organizzato,e continuamente aggiornato,relativo alla bibliografia delle opere di Leonardo Sciascia, nonchè dei testi critici e degli innumerevoli interventi a stampa, radio e televisione, che si sono occupati di queste, e della persona di detto autore.

Come tale, tutto questo materiale  è protetto - quale opera dell'ingegno che realizza la sua creatività nei criteri di compilazione e discretizzazione del materiale ai sensi della legge 633/1941, nonchè delle vigenti Convenzioni Internazionali in materia di Diritto d'autore.

Segnatamente, è protetto quale Banca-dati, a stregua del relativo Progetto di Direttiva n.20/95 del 10.7.1995, definita dal Consiglio delle Comunità Europee in funzione dell'adozione di una Direttiva sulla tutela giuridica delle Banche-dati (pubbl. in "Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, n.288/14 del 30.10.1995)".

Di conseguenza, è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, a qualsiasi fine e con qualsiasi mezzo, della Banca - dati in questione, senza l'esplicito consenso del gruppo di persone fisiche che l'ha creata.

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