Sciascia su altri

 

AFORISMI, CITAZIONI E RIFLESSIONI
di LEONARDO SCIASCIA

 

 

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SCRITTORI – LIBRI – LETTERATI – LETTORI

CHI E COS’È UNO SCRITTORE
Da parte mia ritengo che uno scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose.

(La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979 - Pag. 78)

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DI CERTI “SCRITTORI”
È un’impressione terribile: si sente che uno si mette a tavolino e che dice: “Devo assolutamente scriverlo, questo dannato libro, a patto di finirlo in fretta”. Donde le lacune, i punti oscuri, le incomprensibilità, le frasi vuote, e soprattutto quell’insopportabile portare avanti una specie di scritturale paranoia. È un atteggiamento che non riesco a capire, avrei addirittura voglia di dire ad alcuni di questi autori: “Ma perché diavolo scrive?  Non si sobbarchi a questa pena, a questa sofferenza, a questo tormento”.

(La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979 - Pag. 73)

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SCRITTORI e LIBRI
Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria.

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LETTORI
Prima avevo davanti un tipo di lettore, diciamo borghese. Adesso invece incontro il lettore popolare: il ferroviere, il parrucchiere, il portinaio, gente che durante le ore di lavoro ha momenti di calma e li passa leggendo i miei libri. Questo lettore legge i miei libri cercando di cavarne qualcosa. Li legge come se fossero non dei romanzi, ma dei pamphlet; non come letteratura, ma dei colpi contro il potere, quegli stessi colpi che lui stesso vorrebbe dare se sapesse scrivere. Il lettore borghese è sorpreso della mia scelta di presentarmi alle elezioni: lui pensa che uno scrittore dovrebbe starsene in disparte, a pensare, a giudicare. Il lettore popolare non è sorpreso perché lo scrittore lo immagina proprio come uno che interviene di persona.

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PREMI LETTERARI
I premi letterari quando sono pochi possono essere buoni e significanti, ma quando sono, come in Italia, 1350 non significano più nulla.

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POTERE DEGLI INTELLETTUALI
L’intellettuale in Europa aveva un potere ed io credo che il vertice di questo potere sia stato esercitato da Zola e dai firmatari dell’appello di Zola al momento del processo Dreyfus. Poi è venuto l’inquinamento partitico, l’impegno devoluto alla sinistra: e ha molto inquinato, questo potere dell’intellettuale. Oggi il potere è in tutte altre mani, il potere è la televisione, il potere è la casa di moda. L’intellettuale non ha più nessun potere, comunque io continuo a scrivere come se ci credessi.

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GIUSEPPE ANTONIO BORGESE
Per l’educazione e l’esempio familiare, per quel che di sé sente e vuole, Borgese sa che per quanto diffusa la corruzione, per quanto diffuso il servilismo, quale che sia la professione che riuscirà o sarà costretto a intraprendere, dalla corruzione e dal servilismo saprà sempre difendersi. Ne era convinto a vent’anni, ne darà dimostrazione a cinquanta lasciando l’Italia fascista e affrontando, con l’esilio, un faticoso ricominciare. «La perla rimane perla anche nel fango», dice.  E l’espressione può anche farci sorridere: ma il sentimento che a vent’anni gliela dettava è stato testimoniato dall’intera sua vita.

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ENNIO FLAIANO
Rimpiango di non averlo conosciuto. Benché avessimo un grande comune amico: Maccari, nel cui studio di via del Leoncino sempre ci sbagliavamo di poco, ad incontrarci. “C’è stato Flaiano”, mi diceva a volte Maccari; oppure: “Flaiano verrà nel pomeriggio”, quando io nel pomeriggio dovevo partire. Dieci giorni fa, incontrando Maccari a Mazzarò, subito gli ho detto che avevo sperato fosse venuto con Flaiano. “È in una delle Americhe, non ricordo quale”, mi rispose Maccari. Forse scherzava, forse davvero Flaiano era andato in una delle Americhe.
In questo nostro paese quant’è difficile incontrare le persone che veramente si stimano e si ammirano; e quanto facile, fino all’esasperazione, incontrare invece quelle che profondamente disistimiamo. “Un enorme mostro di noia”: è una delle ultime battute di Flaiano sull’Italia.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979, Pag. 127)

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ALESSANDRO MANZONI e “I PROMESSI SPOSI”
Questa prima lettura mi ha segnato per sempre, sviluppando il mio gusto per la storia, e anche il mio senso dell’ironia. Si tratta certamente di un libro cristiano, scritto da un autore italiano che è un cattolico ‘alla francese’… Se ho detestato il cattolicesimo così come si manifestava quotidianamente di fronte ai miei occhi, non ho però mai sottovalutato Manzoni, perché, ripeto, non è cattolico nel senso italiano o siciliano del termine. Manzoni è uno scrittore cristiano che ha un acuto senso della storia e propone una visione disperata della realtà. Si è affermato a torto e troppo spesso che I promessi sposi è un libro dove la realtà è edificante: non è affatto vero, perché questo libro, innanzitutto critico, contiene già tutto quanto noi conosciamo: la mafia, le Brigate rosse, l’ingiustizia, l’emigrazione… I promessi sposi è un grande libro italiano scritto da un uomo che è tutto sommato molto poco italiano, e che scriveva in italiano meravigliosamente bene.

(Intervista del 1987 a James Dauphiné, citata in Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pagg. 80-81)

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PIER PAOLO PASOLINI
Io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra di noi , ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte Gide contro Claudel, dalla parte di Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
Io ho voluto molto bene a Pasolini e gli sono stato amico anche se, negli ultimi anni, ci siamo scritti e visti pochissimo. La prima recensione al mio primo libretto, le Favole della dittatura, l’ha scritta lui. Da allora siamo stati amici, senza mai uno screzio. Quando è morto, e morto in quel modo, mi sono sentito straziato e solo. Dicevamo quasi le stesse cose, ma io più sommessamente. Da quando non c’è più lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte. Non mi piace, ma mi trovo involontariamente a farlo.

(In Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pag.137)

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FRANCESCO PETRARCA E GABRIELE D’ANNUNZIO
Petrarca morì nella notte tra il 18 e 19 luglio del 1374… Stroncato da una sincope improvvisa, reclinò il capo sul libro che stava leggendo. Accorso a sollevarlo, il fedele discepolo Lombardo dalla Seta vide “come una nuvoletta in su salire” l’anima del maestro.
La sera del 1° marzo 1938, Gabriele D’Annunzio moriva allo stesso modo. Nessuno vide la sua anima in su salire. Ma stava leggendo Petrarca.
Se non sapessimo che cosa Petrarca stava leggendo quando la morte lo colse, diremmo che – nel labirinto del tempo o nella siderale circolarità fuori del tempo – stava leggendo D’Annunzio.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 170)

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LUIGI PIRANDELLO
Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre per me un discorso su Pirandello, scontrosamente e magari con un certo rancore prima, cordialmente e serenamente poi. C’era dapprima a darmi la volontà di allontanarmene e di essergli ostile il suo fascismo negli anni in cui l’antifascismo più urgeva ed era necessario a coloro che, come me, sotto il fascismo avevano passato i primi vent’anni della loro vita. Pirandello era fascista, ma ha voluto essere sepolto completamente nudo per paura che lo vestissero con la divisa fascista, come avevano l’abitudine di fare per i dignitari di regime.

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ALBERTO SAVINIO
Da Alberto Savinio mi è venuta (e credo sia venuta anche ad altri della mia generazione) la più vera, la più radicale lezione di antifascismo. Era un dislargo di orizzonte, un senso di liberazione, una leggerezza e un leggero stordimento come di decollo – o come dall’uscire in piena aria e luce da un luogo chiuso ed oscuro. Dalla sua pagina, subito alle prime righe si apriva la rivelazione che. “c’era dell’altro” – che c’erano verità, da cercare dentro e fuori di noi liberamente, senza paure; che il mondo era stato ed era, negli uomini nelle cose nei libri.

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STENDHAL
… la parola “adorabile”. Può darsi che questa parola io l’abbia qualche volta scritta, e sicuramente più volte l’ho pensata: ma per una sola donna e per un solo scrittore. E lo scrittore – forse è inutile dirlo – è Stendhal.

 (L’affaire Moro, Palermo, Sellerio 1978 - Pag. 12)

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VOLTAIRE
Voltaire diceva che la più grande sventura per lo scrittore, non è quella di essere invidiato dai colleghi, vittima degli intrighi, disprezzato dai potenti, ma di essere giudicato dagli imbecilli, i quali arrivano lontano, “surtout quand le fanatisme se joint à l’ineptie”. Ma qui bisogna osservare che Voltaire si trovò a vivere in un’epoca in cui non tutti gli stupidi erano fanatici né tutti i fanatici erano stupidi. Oggi la stupidità e il fanatismo sono inseparabili e indistinguibili: non c’è fanatico che non sia stupido, e non c’è stupido che non sia fanatico.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pagg. 134-35)

 

 

 

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PERSONE

RENATO CANDIDA
Renato Candida, generale dei carabinieri in pensione, è morto a Torino il giorno 11 del mese scorso… Candida aveva scritto sulla mafia un libro che precorre di ben trentadue anni, rompendo il silenzio che le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano rigorosamente mantenevano, quella volontà di abbatterla che oggi sembra anche diffondersi, oltre che nella coscienza degli italiani, nelle istituzioni…
[…]
Ci siamo conosciuti nell’estate del 1956. Io avevo da qualche mese pubblicato Le parrocchie di Regalpetra. Candida lo aveva letto, mandò a dirmi che desiderava ci incontrassimo. Ci incontrammo a casa mia, a Racalmuto: un uomo simpatico, aperto, spiritoso. E debbo anche dirlo, e sarà magari perché ne conoscevo pochi: ma era il primo funzionario dello stato veramente antifascista che io avessi incontrato. La sua radice di avversione alla mafia era appunto questa: il suo antifascismo…
Diventammo amici. Ci incontravamo spessissimo, almeno due volte per settimana, in paese o nella mia casa di campagna; e ad Agrigento, nel suo ufficio. Stava scrivendo il suo libro sulla mafia…
Ma la pubblicazione del libro segnò l’arresto di quel tanto che si era mosso. Pare volessero subito trasferirlo, quel maggiore dei carabinieri che aveva proditoriamente affermato quel che il governo negava; ma pazientarono a tenerlo ad Agrigento ancora per circa un anno, a che non si pensasse fosse stato subito punito. E lo mandarono poi alla scuola carabinieri di Torino.
[…]
E infine, quel che i lettori si aspettano che io dica: non solo per Il giorno della civetta, ma per ogni mio racconto in cui c’è il personaggio di un investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentati alla memoria, all’immaginazione.

(La Stampa, 11 novembre 1988, poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989)

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RENATO GUTTUSO (e il caso SCIASCIA/BERLINGUER)
(L’accusa di Guttuso a Sciascia: “Ha talmente paura di essere mafioso, che alla fine lo diventa”.)
La mia mafiosità, dunque, consisterebbe nel fatto che io l’ho messo in mezzo, che l’ho chiamato a testimone, che l’ho costretto alla scelta o di smentire me o di smentire il segretario del suo partito. Non passa per la mente di Guttuso che la scelta in cui l’ho posto è quella tra la verità e la menzogna. Non credo sia necessario aggiungere altro. Dovrei forse, per Guttuso, aggiungere delle scuse: per aver creduto che nel nostro rapporto di amicizia vigesse il codice della verità e non quello dell’omertà e della falsa testimonianza. Ma – mafiosamente – non me la sento.

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ETTORE MAJORANA
Questo libretto su Majorana (La scomparsa di Majorana, ndr) mi è venuto di scriverlo proprio in Svizzera. Nel ‘75, che era l’anniversario della fine della guerra, la Televisione ci ha invitato ad una lunga trasmissione in cui si proiettavano filmati sulla guerra, e poi c’era un intervallo per discutere sul tema. Quando c’è stata la sequenza sulla bomba c’era Segrè, il fisico atomico, che mi pareva contento. Quando sono tornato in Italia ho fatto molte ricerche su Majorana ed è venuto fuori questo libretto al quale io tengo molto, per la sua attualità tremenda. Ettore Majorana era religioso. Il suo è stato un dramma religioso, e diremmo pascaliano. E che abbia precorso lo sgomento religioso cui vedremo arrivare la scienza, se già non c’è già arrivata, è la ragione per cui stiamo scrivendo queste pagine sulla sua vita.

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LUIGI MONACO
[Il preside dell’Istituto Magistrale IX Maggio di Caltanissetta, in cui Sciascia studiò, ndr] Si chiamava Luigi Monaco. Ne ho un ricordo talmente vivo e profondo che sempre mi capita di confrontare a lui ogni persona severa e serena, veramente colta, veramente giusta, veramente ragionevole che (raramente) incontro. Ci conosceva uno per uno, con inflessibile ma al tempo stesso indulgente giudizio. I suoi rimproveri, le sue arrabbiature, suscitavano in noi contrizioni e rimorsi. Non riuscivamo nemmeno fra noi a fingere spavalderia, dopo un suo rimprovero. (L’ho ritrovato – amico ma sempre, per me, “il preside” – dopo gli anni di scuola, quando cominciai a scrivere e poi a pubblicare: e il nostro incontro di ogni sera, nell’angolo di una libreria, quando lui è morto mi sono accorto che era la ragione per cui ero rimasto a Caltanissetta).

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 67)

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LEOLUCA ORLANDO
(Lino Jannuzzi racconta di una visita di Leoluca Orlando a Leonardo Sciascia, avvenuta nel novembre 1989, poco prima della morte dello scrittore)
“Ero a Palermo, a casa di Sciascia due anni dopo quell’articolo (i professionisti dell’antimafia) una settimana prima che morisse. Sciascia era pallido, magrissimo, sofferente, girava per lo studio in pigiama, non si vestiva più, non usciva nemmeno per andare a farsi la dialisi. Mi allontanai per qualche ora perché Sciascia doveva ricevere Leoluca Orlando, che insisteva da tempo per parlargli. Quando tornai, lo trovai seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto. Restò a lungo silenzioso, poi mi disse, prima che glielo chiedessi: ‘Ha parlato sempre lui. Non ho capito perché ha voluto vedermi. Ha parlato contro i magistrati e la procura di Palermo, forse per scusarsi della polemica di due anni fa. Ha detto che io resterò nella storia e che mi portava la stima della città.  Ho capito che sono finito. Siamo finiti…’ ”

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NICOLÒ PATITO
Io ammiro molto il mio vicino (Nicolò Patito, ndr), un contadino saggio, non corrotto, che è emigrato per tre anni in Germania, dove con una certa perseveranza avrebbe potuto costituirsi un piccolo gruzzolo, ma ha preferito tornare, dicendo “io sono felice a Racalmuto”. Questo contadino è dotato di profonda saggezza, non pensa né ad arricchirsi né ad ottenere vantaggio; il suo interesse è altrove, nel pensare alle cose della vita, alla morte.

(La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979 - Pag. 23)

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PABLO PICASSO
La grandezza di Picasso non sta, a dirla approssimativamente, nell’avanguardia ma nella tradizione. Cioè: non guardò all’avvenire ma al passato, a quel che era stato fatto e che lui, col suo grandissimo e febbrile talento, “non poteva più fare”. Poteva soltanto disgregare, scomporre, deformare: spesso con ironia, a volte con disprezzo, sempre con la rabbia di essere arrivato quando tutto era già stato fatto. Percorse così tutta la storia dell’arte, e anche tutta l’arte senza storia. E disse sull’uomo, sul passato dell’uomo, reinventandolo, rifacendolo, tutto quello che gli imbecilli oggi negano.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 101)

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LEONARDO SCIASCIA, SUO NONNO
Fino a qualche anno fa molti lo ricordavano, rammentavano le sue collere terribili, il suo rifiuto a scendere a patti con la mafia nonostante le minacce. All’epoca delle elezioni aveva avuto persino il coraggio di dichiararsi contro il partito della mafia. Non si è mai arricchito, cosa che gli veniva rimproverata dalle figlie che lo ammiravano ma al tempo stesso lo consideravano uno stupido. Stupido ad essere onesto, cocciuto e incorruttibile. L’onestà, anche mio padre la possedeva ma in chiave diversa. Per esempio mio padre si era iscritto al partito fascista per trovare lavoro (senza tessera del partito era quasi inevitabile restare disoccupato). Mio nonno non lo avrebbe mai fatto.

(La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979 - Pag. 13)

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DI CERTI SCIENZIATI
A cena con un fisico. Sto in silenzio ad ascoltare i suoi discorsi sulla scienza. Turbato in principio, poi annientato. Uscendo, mi trovo a ripetere la frase di Matteotti appena sceso dal treno che lo riportava dalla Russia (o ricordo male?) “Orrore, amici miei, orrore”.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 165)

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SOCIOLOGI, PSICANALISTI (e INQUISIZIONE)
Mi sono interessato alla inquisizione perché questa è lungi dal non esistere più al mondo. Uno scrittore polacco ha detto: “Attenti a raccontare i vostri sogni, gli psicanalisti possono arrivare al potere”. Da parte mia ritengo che noi siamo già a questo punto. I sociologi e gli psicanalisti sono già al potere.

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DI CERTI PERSONAGGI SIMPATICI
D(omanda). A chi alludeva quando ha detto che la Sicilia, forse l’Italia intera, è fatta di personaggi simpatici a cui bisognerebbe tagliare la testa?
R(isposta). Mai conosciuto un mafioso? Io sì, un paio. Persone di simpatia irresistibile. E uomini politici ladri, corruttori, mafiosi, ne ha mai conosciuti? Anche loro, simpaticissimi. Se però adesso facessi qualche nome, io, lei e il direttore di Panorama ci beccheremmo da sei mesi a un anno, anche se con la condizionale. E non faremmo che rafforzare la posizione di quelle simpatiche persone.  

(Panorama, 8 novembre 1973. Intervista a cura di Emilia Granzotto, dal titolo “Siamo tutti siciliani”.)

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GIORNALISTI e GIORNALI

ANIELLO COPPOLA
Un uomo che dirige un giornale (“Paese Sera”, ndr), anche se il giornale dura appunto un giorno, dovrebbe avere delle idee un poco più ferme. E, quanto meno se vuole combattere il terrorismo, deve evitare dei metodi terroristici. Il fatto è che questa specie di terrorismo verbale è stato battezzato nella stessa parrocchia in cui è stato battezzato quello che spara: la parrocchia dello stalinismo innestatosi con indefettibile continuità sul fascismo e sul nazismo.  Solo che i terroristi che sparano, sono, disgraziatamente, molto più precisi di quanto non sia Coppola nello scrivere.

(in La Palma va a nord, Milano, Gammalibri 1982 – Pag.    )

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GIAMPAOLO PANSA
Pansa dice che mi pensa / Dunque Pansa pensa? / Ma se Pansa pensa cos’è mai il pensare? / Forse è solo un pansare.

(L’Espresso, 25 gennaio 1987)

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EUGENIO SCALFARI
Su “La Repubblica” di domenica, 17 settembre (1978, ndr), Eugenio Scalfari dedica al mio libro sull’Affaire Moro quello che una volta si chiamava articolo di fondo. Libro che non ha ancora letto, poiché uscirà tra un mese: ma ritiene di poterlo già giudicare sulla base di due mie interviste all’“Espresso e a “Panorama”, non ancora integralmente pubblicate. Il meno che io possa dire è che è stato un po’ impaziente, un po’ frettoloso. Se fosse stato più paziente, se avesse avuto meno fretta, nel libro avrebbe trovato di meglio e cioè, dal suo punto di vista, di peggio. Sulla base di quel tanto delle interviste che è stato diffuso dalle agenzie di stampa, Scalfari ha riassunto in quattro punti quelle che chiama le mie conclusioni. I primi due sono abbastanza approssimativi: ma il terzo e il quarto non credo si possano fondatamente estrarre da quello che ho scritto nel pamphlet e da quello che ho dichiarato nelle interviste. Del resto, proprio nello stesso numero di “Repubblica”, seconda pagina, c’è un corretto resoconto delle interviste: e vien fuori chiaramente che non ho detto, come invece Scalfari afferma nell’articolo di fondo, che i partiti e gli uomini che non vollero le trattative con le Brigate Rosse sono “i veri responsabili della morte fisica” di Moro. Debbo dedurne che Scalfari non legge “La Repubblica”?

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 223)

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Scalfari è un personaggio maupassantiano (Savinio direbbe malpassantiano): piuttosto greve, nonostante l’apparenza. E a quale dei personaggi di Maupassant più rassomiglia, lo lascio da indovinare ai lettori. La leggerezza, la sottigliezza, l’ironia non sono dunque tra le sue doti. La chiarezza sì, innegabilmente: e specialmente quando spiega le cose che non capisce. Credo poi abbia il piccolo difetto di arrabbiarsi, di prender fuoco subito: il che nuoce alla riflessione e impedisce quel distacco che genera l’ironia. Da quando ho scritto “L’Affaire Moro” Scalfari è molto preoccupato nei miei riguardi. Da prima che lo pubblicassi, anzi. Non so proprio cosa fare per rassicurarlo. Posso raccomandargli una rilettura de “L’Affaire Moro”? Credo che si offenderebbe: lui l’ha giudicato prima di leggerlo, e i giudizi più assoluti e inamovibili sono appunto i pregiudizi. Mi proverò a scrivere altri libri: ma temo non gli piaceranno. Niente ormai di quello che io scrivo o faccio può piacergli.
P.S. - Scalfari sostiene che uno della trimurti (Andreotti-Pajetta-Scalfari) è stato sempre contrario al compromesso storico. Io non riesco a individuarlo. Forse ce n’è un quarto. Del resto, anche i tre moschettieri erano quattro.

(Corriere della Sera, luglio 1980; poi in La palma va a nord, Milano, Gammalibri 1982 - Pag. 253)

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In quanto a quelle che Scalfari chiama “sortite” capisco benissimo che non gli passi per la testa il sospetto che si possa scrivere che per null’altro che per amore della verità. È vero che sono troppe le mie “sortite” che sono andate incontro a polemiche, risentimenti, riprovazioni e perfino diffamazioni e calunnie. Calunnie alla don Basilio (pertinente richiamo, a pensarci bene). Ma che posso farci? Come Shaw diceva che i negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe e poi si dice che sanno solo fare i lustrascarpe, prima mi si attacca e poi mi si fa il rimprovero di essere attaccato. Io ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere parecchie cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell'opportunità e della prudenza. Ma si è come si è.

(La Stampa, 6 agosto 1988; poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Bompiani 1989 - Pag. 153)

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“L’ORA” DI PALERMO
“L’Ora” sarà magari un giornale comunista, ma è certo che mi dà modo di esprimere quello che penso con libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono: e senza sfumature.

(1965)

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POLITICA - POLITICI - PARTITI

DEMOCRAZIA CRISTIANA
Quando il PCI dice di voler costruire qualcosa con la DC, si dimentica che essa non è materiale da costruzione, ma materasso che non consente scontri.

(In Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pag. 239)

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PARTITO COMUNISTA ITALIANO
Nel 1974-75, mi sono avvicinato o, più esattamente, il PCI si è avvicinato a me; e questo accostamento mi ha indotto a credere che fosse diverso. Sono assai sensibile ai rapporti umani, ai contatti personali: certi giovani funzionari del PCI mi hanno dato l’impressione che il partito fosse mutato, o che era sul punto di farlo. L’esperienza del Consiglio comunale (di Palermo, ndr) è stata una totale delusione. Il partito non cambiava. E anzi, in un certo senso, peggiorava. Ho quindi commesso un errore di valutazione, ma si è trattato anche di un’esperienza liberatrice. Non nutro più, nei confronti del PCI, rispetto di sorta. Sono ancora affezionato a coloro che vi militano, ma ritengo che quel partito sia il più vecchio che ci sia: più vecchio ancora del Partito Liberale.

 

 (In Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pag. 258)

 

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I miei rapporti con il PCI hanno conosciuto alti e bassi, un po’ come quella poesia di Manzoni, quando parlando di Napoleone dice che fu trascinato due volte nella polvere, due volte sull’altar […] Prima di pubblicare Il contesto agli occhi del PCI ero “un grande scrittore”.  Dopo le mie dimissioni sono diventato “un codardo”, in realtà una simile retorica piena di ingiurie non solo induce a riflettere, anzi qualche volta mi diverte. A lungo andare i fulmini del PCI finiscono con l’essere comici.

                        (Intervista a Le Nouvel Observateur, 1978)

 

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Pensavo che il PCI si liberalizzasse, che ci fosse veramente, al suo interno, la possibilità di un dibattito, ma nei fatti questa possibilità non esisteva. La libertà è un valore fondamentale che il partito comunista ignora e ignorerà sempre.
Le critiche da parte comunista, nei miei confronti, sono state le peggiori: sono stato giudicato a seconda che mi accostassi o mi allontanassi dal partito. Un fatto divertente, in fin dei conti.

(1987)

 

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CRETINI DI SINISTRA
Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile, e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania.

(Nero su nero,  Torino, Einaudi 1979 - Pag. 244)

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DOPPIA MORALE DELLA SINISTRA
Il guaio della sinistra in Italia è di aver seminato una doppia morale: una cosa è giusta se è fatta da un uomo di sinistra o da un gruppo o da un partito di sinistra; sbagliata se fatta da un uomo di destra. Poiché presto o tardi si raccoglie quello che si semina, già si comincia a vedere che la sinistra non avrà un buon raccolto.

(1978)

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FASCISMO
Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo devo alla passione antifascista. La mia sensibilità al fascismo continua ad essere assai forte, la riconosco ovunque ed in ogni luogo, persino quando riveste i panni dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo italiano. Il fascismo non è morto. Convinto di questo, sento una gran voglia di combattere, di impegnarmi di più, di essere sempre più deciso e intransigente, mantenere un atteggiamento sempre polemico nei riguardi di qualsiasi potere. Tra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale  anche se si tratta di una viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver osato prendere le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente…

(La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979 - Pag. 85)

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SEDICENTI ANTIFASCISTI
Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 73)

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GIULIO ANDREOTTI
Intanto rimanderei a casa Andreotti che riunisce in sé il peggio, nei secoli della storia d’Italia. Già vedo i libri di storia del futuro: sotto il governo dell’onorevole Andreotti, la corruzione della vita italiana raggiunse il suo massimo, mentre la vita umana valeva quanto ai tempi di Cesare Borgia. Perchè tanto odio per Andreotti, vuol sapere il giornalista. E Sciascia spiega: Per il suo machiavellismo paranoico, per il cinismo che ha ereditato dalla curia romana, lo stesso cinismo rappresentato dai sonetti del Belli e dai personaggi di Alberto Sordi. La miopia verso il bene e la presbiopia verso il male.

(Intervista del 1979 a Paolo Guzzanti, citata in Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pag. 278)

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ENRICO BERLINGUER
Come uomo mi è simpatico. Come politico, mi sembra più abile di Togliatti.

(Playboy 1976 poi in Leonardo Sciascia di Ottavio Rossani, Rimini, Luisè 1990 - Pag. 115)

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ALDO MORO
Morendo Aldo Moro si è, per così dire, spogliato della tunica democristiana. Il suo cadavere non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa.

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 MIMMO PINTO
Una delle cose più positive del mio mandato parlamentare, è di aver avuto modo di conoscere Mimmo Pinto.
(Mimmo Pinto, deputato del Partito Radicale, ex parlamentare di Democrazia Proletaria, aveva affermato che “la Democrazia Cristiana sarebbe finita con l’essere processata nelle piazze”, attirandosi “un risentito intervento di Aldo Moro”. Ma, quando Moro fu sequestrato dalle BR, Pinto “era stato tra i pochi a schierarsi per la trattativa perché gli venisse salvata la vita”. Ndr)

 (In Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pag. 293)

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COMPROMESSO STORICO
(Del compromesso storico, ndr) Penso tutto il male possibile. Per dirla con una battuta, è un errore storico. E lo sconteremo tutti, per almeno vent’anni. Il compromesso storico non è stato altro che perpetuare la corruzione democristiana con il rigore comunista.

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SESSANTOTTO
Per me il ‘68 ha significato non molto, perché ho visto subito che una forza a sinistra del Partito Comunista era destinata a perire, questo in senso politico, ma nel senso di questa gioventù che voleva qualcosa di diverso mi è parso ci potesse essere qualcosa di positivo. Però mi pare che oggi il prezzo del ‘68 lo sta pagando una generazione che non crede più in nulla.

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UN CERTO TIPO DI ELETTORE COMUNISTA
Sarà senz’altro raro, ma c’è un elettore comunista di questo tipo: “Io ho votato comunista perché soltanto il comunismo potrà rompere le reni a questi operai”. (Giuro di non avere inventato la battuta, né con intenzione o malizia la riferisco).

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 128)

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STATO E BRIGATE ROSSE
Pago le tasse allo stato, non le pago e non voglio pagarle alle Brigare Rosse. Il fatto che dia un giudizio negativo all’attuale classe politica non significa volere che si avveri il progetto delle Brigate Rosse. Significa desiderare che questa classe politica cambi.

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POLITICI ITALIANI
“Andandomene nudo come me ne vado in effetti, è chiaro che ho governato come un angelo”. Sono le parole che dice Sancho (Don Chisciotte) dopo il suo governatorato. Quali e quanti nostri politici, alla fine del loro mandato, possono dire altrettanto?

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POLITICI DI OGNI PARTITO
In questi giorni, da ogni parte, non si sentono che confessioni di errori. Uomini politici autorevoli si inginocchiano davanti ai confessionali dei giornali a grande tiratura, si battono il petto, freneticamente dicono di aver sbagliato. Mai che dicano, però, “ho sbagliato”. “Abbiamo sbagliato”, sempre. E mai che, il prete-intervistatore domandi, come i preti-preti, “quante volte, figliolo?”.
[…]
Ora, se ognuno che si confessa dicesse “io ho sbagliato”, sarebbe semplice dargli magari l’assoluzione ma a patto che si trovi un buon ritiro, che si tolga dalla condizione e dal ruolo in cui si è trovato a sbagliare. Ma il “noi” complica maledettamente le cose. È un “noi” ristretto o un “noi” largo – tanto largo da comprendere interi partiti e tutti coloro che quei partiti hanno votato?
Se è un “noi” largo, credo che la confessione non solo non valga ma sia foriera di altre inutili confessioni. Meglio, anche in ciò, prendere lezioni dalla chiesa cattolica: che credo non ammetta confessioni col “noi”.

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pagg. 204-205)

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IL PARLAMENTO ITALIANO
Ho visto da vicino questo parlamento, che come istituzione nei servizi funziona benissimo; se l’Italia funzionasse come funzionano i servizi in Parlamento, sarebbe un paese ideale. In quanto al Parlamento in sé, mi pare che sia stato progressivamente deteriorato e usurato dalla partitocrazia. Bisogna ormai salvarsi dai partiti, salvarsi dai politici, inventare una politica sottratta ai politici. La partitocrazia ha terribilmente deteriorato l’istituzione democratica. Su questo non c’è dubbio. Credo che i partiti stessi debbano sentirne il disagio.

(Intervista a Radio Radicale - 1983)

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GIUSTIZIA IN ITALIA

 

DELLA MAGISTRATURA ITALIANA
Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità. Che faccia un lavoro dipendente o che ne eserciti uno in proprio e liberamente, sa che di ogni errore deve rendere conto e pagare il prezzo a misura della gravità e del danno che […] ha arrecato […].  Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice, anche se non con funzioni di vertice. E credo sia, questo, un ordinamento solo e assolutamente italiano.
Inutile dire che dentro un ordinamento simile che addirittura sfiora l’utopia, ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza. E altro che sfiorare l’utopia: ci siamo in pieno dentro. E come uscirne dunque?
Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza. Ma mi rendo conto che contro un’utopia è utopia anche questa.

(Corriere della Sera, 7 agosto 1983; poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Bompiani 1989 - Pagg. 74-75)

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LA GIUSTIZIA IN ITALIA
Dice un vecchio avvocato: “Una volta, su cento casi che mi capitavano, novantotto erano di colpevoli e due di innocenti. Ora è il contrario: novantotto di innocenti e due di colpevoli”. Spero che la sua sia una esperienza eccezionale, ma spesso mi assale il sospetto che la macchina della giustizia si muova a vuoto o, peggio, arrotando chi, per distrazione propria o per spinta altrui, si trova a sfiorarla.

 (Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 - Pag. 25)

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L’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse una parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della Magistratura non riesce ad introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, a esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo. La società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto.

 (1979)

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IL GIUDICE di “PORTE APERTE”
Io ho conosciuto questo giudice, era del mio paese, un uomo modesto, senza avere esibizione. Anche di questo fatto non osava molto parlare, però si sapeva. Ed io lo dico nel libro, che una volta mi fu indicato, la prima volta che lo vidi, come l’uomo che si era rovinato la carriera per non aver voluto condannare a morte uno. Da allora mi ha appassionato. Ad un certo punto ho ricercato tutte le carte di questo processo, che però ho usato più nel senso dell’immaginazione che nel senso del documento vero e proprio.

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 L’“AFFAIRE” TORTORA
… Non mi chiedo: “E se Tortora fosse innocente?”: sono certo che lo è. Il fatto di conoscerlo personalmente e di stimarlo uomo intelligente e sensibile (non l’ho mai visto in televisione), può anche essere considerato elemento secondario e magari fuorviante; ma dal giorno del suo arresto io ho voluto fare astrazione del rapporto di coscienza e di stima e ho soltanto tenuto conto degli elementi di colpevolezza che i giornali venivano rilevando. Non ne ho trovato uno solo che insinuasse dubbio sulla sua innocenza. Sono tutti elementi “esterni”, che non trovano riscontro alcuno, non dico in quel che conosciamo della personalità e del modo di vivere di Enzo Tortora, ma che non trovano convalida alcuna in un solo indizio che possa dirsi oggettivo o probante.

 (Corriere della Sera, 7 agosto 1983; poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Bompiani 1989 - Pag. 72)

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ARCHIVIAZIONE DEL CASO SCIASCIA/BERLINGUER
In quanto a quei giornali e a quei giornalisti che stanno in tripudio perché due giudici, rifiutandosi alla ricerca della verità, hanno creduto di poter macchiare di falso la mia affermazione, non posso per loro che parodiare il famoso passo di John Donne: Quando in un paese la campana della giustizia suona a morto, non mandare a vedere per chi suona, suona per tutti.

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PENA DI MORTE
Che si potesse, per punizione, dare la morte, era un’idea che mi sconvolgeva, mi atterriva. Che si potesse dare la morte così, freddamente, a tavolino, compilando una scrittura. Non il fatto, ecco, che gli uomini potessero uccidere altri uomini: la cronaca del paese, non mancava di morti ammazzati. Quel che mi inquietava, quel che per me era un vero e proprio trauma, era la morte attraverso la sentenza, la morte attraverso la scrittura. Mi pareva, e mi pare, la più grande infamia cui una società, uno Stato, tutta quella parte del genere umano che l’acconsentiva, l’accettava o vi si rassegnava, potesse arrivare…

 (La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979 - Pagg.8-9)

 

 

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MAFIA E P2

CHE COS’È LA MAFIA
Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione, tra la proprietà e il lavoro, mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con la violenza.

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L’ITALIA, PAESE SENZA VERITÀ
Chi non ricorda la strage della Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.
All’alba del 5 luglio ‘50, intorno al cadavere di Giuliano, viene messa su quella recita a soggetto sciocca e macabra subito demolita dalle rivelazioni giornalistiche. Giuliano è un po’ “il cadavere nella stiva” dell’appena varata repubblica italiana: e il popolo italiano vuole sapere quali responsabilità e complicità ci sono state intorno a questo cadavere, e di chi: e come mai, insomma, la repubblica si sia trovata questo “cadavere nella stiva”.

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I POTERI DATI AL GENERALE DALLA CHIESA
Già in Sicilia polizia e magistratura hanno poteri sufficientemente acostituzionali, se non anticostituzionali, come quello del ripristino del confino di polizia. Che cosa si vuole oltre: il coprifuoco, la deportazione di massa, la decimazione? Io sono convinto che di poteri il generale Dalla Chiesa ne ebbe già troppi nella lotta al terrorismo: e ne è discesa quella legge sui pentiti che nessuno, spero, verrà a dirmi abbia a che fare con l’idea della giustizia e con lo spirito e la lettera della Costituzione.

(In L’Espresso, 20 febbraio 1983, poi in A Futura Memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989 - Pag. 59)

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LA VICENDA PECI E LA P2
Molti sono i punti sulla vicenda Peci che non mi convincono; e non ultimo quello dell’uccisione dei brigasti in via Fracchia, a Genova. Non sono per nulla convinto, voglio dire, che quelle persone non potessero essere catturate vive e senza rischi per quei carabinieri che partecipavano all’azione. Né posso ammettere che un corpo di polizia ben addestrato, quale il generale diceva fosse il suo, si fosse fatto sfuggire Peci una prima volta semplicemente perché la casa in cui Peci abitava aveva due porte. “Elementare,” direbbe non dico Sherlock Holmes, ma qualsiasi sottufficiale dell’Arma, “quasi tutte le case hanno due porte.” E in quanto alla P2: non mi convince per nulla che il generale ci fosse entrato (dietro consenso del generale Mino, che era già nella P2) per andare a vedere quello che  vi succedeva. C’era già suo fratello: poteva farselo dire da lui.

(In L’Espresso, 20 febbraio 1983, poi in A Futura Memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989 - Pag. 60)

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IL FIGLIO DEL GEN. DALLA CHIESA
… Più tardi, da una lettera di Sindona pubblicata da un settimanale, seppi quel che Sindona avrebbe voluto da me, ma che il mio concittadino non si attentò a chiedermi. Che io abbia dato “qualche consiglio” è dunque una menzogna e una diffamazione: e se il figlio del generale non specificherà da quale fonte ha appreso che io abbia dato consigli a Sindona e in che questi consigli consistessero, sarò in diritto di considerarlo un piccolo mascalzone.
[…]
Il fatto è che a questo poveretto è stato fatto credere che non si deve, e non si può, parlar male del generale Dalla Chiesa così come un tempo (e forse ancora) di Garibaldi. Ma la figura del generale appartiene alla cronaca di questi anni e alla storia; né io ho voluto genericamente dir male. Ho parlato di fatti e ho espresso opinioni: ma su questo terreno il figlio del generale si è rifiutato di scendere. Come si suol dire, buon pro gli faccia. E credo ne vedremo il pro che saprà spremerne.

(L’Espresso, 6 marzo 1983, poi in A Futura Memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989 - Pagg. 64-65)

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I “PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA”
Io che per primo nella storia della letteratura italiana, avevo dato rappresentazione non apologetica del fenomeno mafioso, ma sempre con la preoccupazione che si finisse col combatterla con gli stessi metodi con cui il fascismo l’aveva combattuta (una mafia contro l’altra) sollecitato dalla lettura del libro di Christopher Duggan su mafia e fascismo, su mafia e potere politico, scrissi degli articoli in questo senso sul Corriere della Sera. Ne venne una furente polemica, mi si accusava di indebolire la lotta alla mafia e quasi favorirne l’esistenza.

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IL COORDINAMENTO ANTIMAFIA
… E dunque: sulle considerazioni che in quel mio articolo (Corriere della Sera, 10 gennaio 1987, ndr) facevo intorno ai pericoli di una mal condotta antimafia, si è subito scatenata l’ira dei “professionisti dell’antimafia” (il titolo dell’articolo, come nei giornali sempre accade, non era mio: ma dalle reazioni si può dedurre che giustamente scopriva una categoria), e specialmente del Coordinamento antimafia di Palermo, che emetteva un comunicato che decretava di collocarmi ai margini della “società civile” e mi gratificava di un insulto (“quaquaraquà”, ndr) che, per i mafiosi, vale come l’estrema e definitiva condanna rispetto alla loro società. Singolare e sintomatica “voce dal sen fuggita”: migliore insulto non hanno trovato di quello tipicamente mafioso.

(Corriere della Sera, 26 gennaio 1987, poi in A Futura Memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989 - Pagg. 140-141)

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GIUSEPPE GENCO RUSSO

Avevo ottenuto, tramite il suo avvocato, di fare unintervista a Giuseppe Genco  Russo, considerato, negli anni Cinquanta, il capo della mafia siciliana. Lappuntamento era nello studio dellavvocato. Finita lintervista (che uscì poi sul settimanale Mondo nuovo del PSIUP), lavvocato tirò fuori il mio libro Gli zii di Sicilia e mi chiese di dedicarlo allintervistato. Momento, per me, di grave imbarazzo. Non so quanto stetti a pensarci su, ma credo di esserne uscito bene. Scrissi: Allo zio di Sicilia, questo libro  contro gli zii.

Bibliomania - Edizioni Henry Beyle - Milano 2015 - Pagg. 9-10
(Lintervista di Leonardo Sciascia a Giuseppe Genco Russo fu pubblicata su Mondo nuovo del giugno 1965.)

 

 

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VARIE

L’ITALIA
Purtroppo non riesco mai a essere veramente lontano, come diceva Unamuno della Spagna: “Mi duole l’Italia”. è come un dolore fisico: si può, per dirlo con una bella espressione siciliana, svariare quanto si vuole, ma uno se la porta sempre… Certo da qui (Parigi) c’è più distacco, più lucidità, ma la lucidità e il distacco possono dar ragione al dolore, non alleviarlo.

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D(omanda). Secondo lei, come sarà l’Italia fra dieci o vent’anni?
R(isposta). Molto meno libera di oggi, molto meno giusta, molto più povera. Ma debbo dire che di un po’ di povertà c’è forse bisogno: e, si capisce, non per i poveri.

(Panorama, 8 novembre 1973. Intervista a cura di Emilia Granzotto, dal titolo “Siamo tutti siciliani”.)


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LA SICILIA
D(omanda): Che cos’è, per lei, la Sicilia?
R(isposta): Prima che una regione ricca di particolarità (e questa ricchezza è in effetti la sua povertà) la Sicilia è qualcosa che il siciliano ha nella testa. Voglio dire: la Sicilia è un’idea della Sicilia. E questo, fra tutti i suoi mali, è il guaio peggiore.
D. Quale idea della Sicilia?
R. L’ha detto molto bene Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, quando il Principe spiega la Sicilia al piemontese Aimone Chevalley. Ci sentiamo perfetti, dice, perché viviamo in una terra « ricca, saggia, civile, onesta, da tutti amata e invidiata ». Ecco: questa è la Sicilia come la pensano i siciliani, una Sicilia che non c’è.
[…]
D. A volte sembra che lei esprima verso la Sicilia il risentimento di un amore deluso.
R. Non c’è amore deluso. In quello che amo della Sicilia (i paesaggi, i tramonti, i silenzi, il senso esasperato dell’umano, l’amicizia, il dolore, la famiglia, lo spirito di sacrificio, la vita intesa come dovere) non ci può essere delusione. Diciamo anche che amo gli effetti buoni di cose che, pur rimanendo le stesse, possono avere anche effetti del tutto contrari. Dalle stesse radici, amicizia, famiglia, spirito di sacrificio, eccetera, nasce anche quello che mi ripugna e che detesto. E non soltanto della Sicilia. Per me la Sicilia è come una metafora del mondo. Essendo stata per secoli il crogiuolo dei mali della storia, oggi è l’immagine dei mali di cui il mondo può morire. Non esiste, oggi, una Sicilia fuori della realtà italiana, se non come cavia di certe incongruenze, di certi nodi che verranno al pettine. Per l’Italia e non soltanto per l’Italia. Quello che succede in Sicilia è solo un po’ più appariscente, per il fatto stesso che è siciliano.  
D. Quali sono i vecchi mali della Sicilia diventati nazionali, o addirittura mondiali?
R. Uno soprattutto: la riduzione delle idee a meri strumenti del « levati tu che mi ci metto io ». E tutto come prima, se non peggio. Questo ormai accade dappertutto. Dappertutto, oggi, si trova quel tipo di scaltrezza che in Sicilia si chiama « spertizza ». « Spertu » è chi ritiene di poterla fare a un altro e la fa, convinto che sia suo diritto. E poi dappertutto c’è il sopruso, la vigliaccheria verso il potere, la connivenza, l’indifferenza. La grande malattia dei nostri tempi è l’indifferenza, il non volersi mischiare, il non prendere partito. Accade in Sicilia, ma anche a Roma, a Milano, a New York. Una signora che insegna in America mi ha detto che i suoi alunni hanno letto il mio Contesto  in chiave Watergate.  

(Panorama, 8 novembre 1973. Intervista a cura di Emilia Granzotto, dal titolo “Siamo tutti siciliani”.)

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RACALMUTO
Tutti amiamo il luogo in cui siamo nati, e siamo portati ad esaltarlo. Ma Racalmuto è davvero un paese straordinario. Oltre al circolo e al teatro, che richiamava un tempo le compagnie più in voga, di Racalmuto amo la vita quotidiana, che ha una dimensione un po’ folle. La gente è molto intelligente, tutti sono come personaggi in cerca d’autore.

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CALTANISSETTA
Conservo un meraviglioso ricordo di Luca Pignato, professore di filosofia in un liceo di Caltanissetta e finissimo conoscitore della letteratura francese, il quale ci ha fatto leggere opere delle quali credo che ben pochi avessero avuto sentore. Noi che siamo vicini ai sessant’anni, grazie a lui abbiamo fra le mani L’après-midi d’un faune di Mallarmé, l’Ulisse di Joyce nella traduzione di Valery Larbaud, e tutti i Parnassiani. Verso il 1935-1940, Caltanissetta era una piccola Atene, non fosse che perché in quel periodo di onagrocrazia, cioè dominio degli asini, come diceva Benedetto Croce, un giovane poteva incontrare come insegnante Luca Pignato, il poeta protestante Calogero Bonavia, padre Lamantia, Aurelio Navarria, Luigi Monaco, Giuseppe Granata: nomi che per molti non dicono nulla, ma per me ed altri della mia generazione sono stati, direttamente o meno, dei maestri. E Vitaliano Brancati…   

(In Il Maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura, Longanesi, Milano 1996 - Pag.101)

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IL PATRIMONIO ARTISTICO NAZIONALE
Sono dell’opinione che quel tanto che del passato ci resta in muri, archi e colonne, in monumenti e documenti, lo si debba all’incuria dei secoli, dalla fine dell’Impero romano all’unità d’Italia; mentre alla cura e protezione nell’ultimo secolo legiferata e istituzionalizzata siano da attribuire le devastazioni più irreparabili, e le più efferate.

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LA FELICITÀ
Purtroppo oggi chi vuol essere felice, sceglie, curiosamente, di arrivarci attraverso l’infelicità. Come in quelle domeniche di estate quando si lascia in tutta fretta la città per il mare, inscatolati in un’automobile che sembra un forno, frastornati su strade strapiene in un fracasso infernale, in un mare inquinato, e poi… il lento e polveroso “tapis roulant” del ritorno… una giornata di vero e distensivo piacere avrebbe dovuto consistere nel restare in città, a casa.

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VERITÀ RESTITUITE IN MENZOGNA
Credo che all’uomo – all’uomo umano – non resti che la letteratura per riconoscersi e riconoscere la verità. Il resto è macchina, è statistica, è totalitarismo. È il sistema della menzogna: la grande mostruosa macchina che ingoia tante verità per restituirle in menzogna. E lo stato finirà per identificarsi in questa macchina, se non si è già identificato. Non avrà niente a che fare con l’uomo, con la nozione dell’uomo che ancora abbiamo e che troviamo nella letteratura.

(Intervista rilasciata a “Le Monde” il 4 febbraio 1979) 


(a cura di Giampiero Brembilla)