Edoardo Costadura - Leonardo Sciascia: la solitudine del Maestro

[CITAZIONI]

Si è come si è stati nei primi dieci anni di vita.

Un terribile sentimento, la pietà. Un uomo deve amare e odiare: mai aver pietà.

Non c’è ordine senza somiglianze, non c’è conoscenza, non c’è giudizio.

Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma nella scrittura, che nella scrittura trova strazio o riscatto.

– Tutti i nodi vengono al pettine.

– Quando c’è il pettine.

L’unico modo di essere rivoluzionari, è quello di essere un po’ conservatori. Al contrario del reazionario, che vuol tornare al peggio, il conservatore è colui che vuol partire dal meglio, che vuol conservare il meglio.

Il potere non è nel Consiglio Comunale di Palermo. Il potere non è nel Parlamento della Repubblica. Il potere è altrove.

L’intellettuale organico è una specie di concime per la pianta politica. Al limite, preferisco essere la pianta piuttosto che il concime che la fa crescere.

Quando lo scrittore serve, è unicamente nel senso che ci aiuta a vivere nella verità.

Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: “Ha contraddetto e si è contraddetto”, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante “anime morte”, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano.

Freddissime in inverno e caldissime appena cominciava la primavera, le aule scolastiche [...]: in alcune, che ho conosciuto da alunno e da maestro, muffe di salnitro coprivano le pareti, gelidi spifferi venivano da porte e finestre, effluvi ammoniacali assalivano nei corridoi. Il maestro ricorda ragazzi per lo più segnati dalla miseria, sempre affamati e in attesa del rancio, vestiti di stracci rattoppati troppo abbondanti o troppo esigui e comunque inadatti ai rigidi inverni, con ai piedi vecchie scarpe militari aperte nella punta come bocche sdentate, scarpe di tela e gomma o sandali di legno con striscette di cuoio. Ragazzi che chiedono di essere corretti manualmente col bastone; che non ascoltano, che le fanno di tutti i colori, che dicono e scrivono cose oscene ma che al di fuori delle loro faccende familiari, delle loro monellerie e anche dei loro piccoli furti non sanno esprimere sentimenti, esperienze: quando vanno a cinema mi raccontano l’indomani quello che hanno visto, ma non ce la fanno, sanno solo numerare i morti e dire della bellezza delle donne, strizzandomi l’occhio per intesa.

Sciascia va a scuola come andrebbe in una miniera di zolfo. Durante i turni pomeridiani è tormentato da violenti attacchi di sonno. Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Ha la netta impressione di insegnare ai ragazzi cose che non li riguardano e che pertanto non servono. Di vent’anni di insegnamento, conservo soprattutto il ricordo della difficoltà a destare l’interesse dei bambini. Abbastanza bravi in aritmetica, [...] si rivelavano tardi e pigri nelle altre materie, scuotendosi unicamente se si parlava della vita di ogni giorno.

Si scuotevano anche sentendogli leggere una poesia. Per loro sceglievo poesie dal linguaggio semplice, sul calcio, sui giochi, possibilmente in dialetto, perché li colpiva di più. Ad esempio la quinta delle 18 poesie di Leonardo Sinisgalli sul gioco di rimbalzino: I fanciulli battono le monete rosse / contro il muro... Oppure Goal di Umberto Saba (la quinta delle Cinque poesie sul gioco del calcio): Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non veder l’amara luce... Ma sono rare oasi di felicità mentale; troppo violento è lo scarto tra letteratura e realtà, tra sapere da trasmettere e realtà: mi si rompe dentro l’eco luminosa della poesia.


I ragazzi fuori da scuola non salutano, è come se il maestro smettesse di esistere. (Certo, di tanto in tanto un alunno passava a salutarlo prima di partire per l’America con la famiglia). Sarebbe dunque fuorviante immaginare il giovane Sciascia tra i suoi allievi come una sorta di laico Don Milani. Non meno improbabile l’ipotesi di una simbiosi tra il maestro elementare e lo scrittore maestro, tra il maestro e il Maestro con la maiuscola. Eppure, dirà Sciascia, è dalla scuola che bisogna tutto ricominciare.

Sciascia è un maestro che ha trovato la sua dimensione, la sua misura, non nella scuola, ma nella scrittura, nella letteratura. A che pensa infatti Sciascia quando scrive? Quando scrivo [...] penso soprattutto a me stesso, o meglio al lettore come a un altro me stesso [...]. Io scrivo per me e per altri me stesso: e in questo va visto un principio etico fondamentale. E perché mai sarebbe più morale scrivere per se stessi che per gli altri? Perché non si può prendersi gioco di se stessi. È questo il dispositivo che consente a Sciascia di trasformare la parola scritta in parola da dire e da contraddire, di scegliere i propri lettori, facendo propria la lezione di quei rarissimi scrittori che coinvolgono nella loro storia la storia del lettore: la lezione di Montaigne e di Stendhal, di Savinio e di Borges.

Come Savinio, Sciascia conversa sempre, e dialoga al di là della forma dialogica. Nei suoi libri, come in quelli di Stendhal, si intreccia un serrato colloquio che decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, e talora rendendola più oscura, per come la realtà spesso è, mira allo svelamento della verità: aspra verità (come recita l’epigrafe del Rosso e il nero), ma che dà gioia e felicità, e senso alla vita. Da parte mia, ritengo che lo scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose.

Vuol dire che lo scrittore dice sempre la verità? In quanto a quel che in un libro ho voluto dire, sono certo, immutabilmente certo, della “morale della favola”, ma non ugualmente certo sul particolare, sul dettaglio. Diceva Montaigne (nel capitolo «Dei bugiardi»): Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una condizione migliore. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello che dicesse il bugiardo. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito. Se come la menzogna la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte.

Qualche esempio? Il paradosso del commediante di Diderot, i Libelli di Paul-Louis Courier, I Miserabili di Victor Hugo, La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj, tutto Pirandello, quasi tutto Voltaire, tutto Stendhal, tutto Manzoni; e poi Montaigne, Spinoza, Casanova, De Roberto, Borgese, Borges, Rensi, Brancati, Barilli, Savinio, Lampedusa, Pasolini, Dürrenmatt... Ci sono anche degli esempi a contrario: Verga, Proust, Dostoevskij, Joyce, e su un altro piano Céline (quanti, oggi, hanno l’onestà di non voler leggere Céline e di dirlo?).


In Sciascia la ricerca della verità comincia sempre con un gioco: il gioco delle somiglianze, che in Sicilia è uno strumento di conoscenza. Un gioco che consente di leggere il caso, di decifrare coincidenze e analogie che a conti fatti raramente sono casuali: piuttosto segnali di un’occulta regia. E nel cuore di questo sistema di analogie e di metafore sta la Sicilia con le sue contraddizioni, i suoi antichi peccati. Il più grande peccato della Sicilia è stato ed è sempre quello di non credere nelle idee. Qui che le idee muovono il mondo non si è mai creduto. [...] È questo che ha impedito sempre alla Sicilia di andare avanti: il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato. E siccome questa sfiducia nelle idee, anzi questa mancanza di idee, ormai si proietta su tutto il mondo, in questo senso la Sicilia per me ne è diventata la metafora. Vediamo intanto come si proietta sull’Italia. Ebbene, Le dirò questa – per me terribile – verità: ancora oggi credo che una buona parte degli italiani (di destra, di sinistra, di centro) vivrebbe nel fascismo come dentro la propria pelle. Magari dentro un fascismo meno coreografico, con meno riti, con meno parole: ma fascismo. Un regime che non dia la preoccupazione di pensare, di valutare, di scegliere. Donde la difficile posizione dell’intellettuale, dello scrittore... In effetti, questo nostro paese non vuol saperne di specchi che lo riflettano, di scienze che ne diano atto. Ha bisogno di vivere in un presente indefinito, in un oggi amorfo, informe, incolore e imprevedibile. L’intellettuale, che di norma rappresenta la coscienza del passato e la preoccupazione per l’avvenire, proprio per questo è respinto, scacciato, esiliato.

Oggi l’Italia si specchia non solo nella Sicilia, ma anche nel suo Parlamento, a torto credendo che le faccia torto. In effetti il Parlamento è lo specchio esatto del Paese: non è per niente peggio del Paese. Se invece si guardasse allo specchio che le porge Leonardo Sciascia, l’Italia si vedrebbe diversa o non si riconoscerebbe affatto, come in uno stagno percorso da cerchi concentrici che progressivamente si allargano. Regalpetra (cifra di Racalmuto) metafora della Sicilia, la Sicilia metafora dell’Italia, l’Italia metafora del mondo. L’opera di Sciascia è il sasso gettato nello stagno, la scossa che ci rende leggibile la superficie ingannevole, solo apparentemente liscia e piana, dello stagno: A seguire attraverso i verbali di riunione della Giunta e del Consiglio le aggrovigliate vicende delle amministrazioni comunali di Regalpetra, si ha l’impressione di entrare in un mondo in cui un giuoco di sofismi di sottintesi di inganni, casi personali in guerra fredda o in guerra guerreggiata, si esalta come puro arabesco, al di là di ogni rapporto con la comunità.

Che fare? Se gettiamo appena un’occhiata sulle scuole, sugli ospedali, sui trasporti, sulla polizia, sull’amministrazione della giustizia, sulle industrie di stato, sulle biblioteche, sui musei e su ogni cosa che ha a che fare con lo stato, lo sgomento ci prende. E da un tale sgomento possiamo cominciare ad uscire soltanto diventando un po’ conservatori, tornando a ripercorrere la catena fino ad arrivare all’anello che non tiene.


Alla coscienza del passato, alla preoccupazione per l’avvenire Sciascia ha sacrificato la poesia. A un certo punto l’eco luminosa della poesia gli si è rotta dentro, o forse è stato lui a volontariamente schermarla, come quando in Sicilia si chiudono le imposte alla canicola. In Sciascia infatti la poesia è innanzitutto luce, la luce mutevole dei paesaggi, delle stagioni: la luce intensa della campagna innevata da cui traspare lontana la montagna di neve di Cammarata, nitida nel cielo smaltato di gelo; e la luce violenta dell’estate: Gli antichi a questa luce non risero, / strozzata dalle nuvole, che geme / sui prati stenti, sui greti aspri, / nell’occhio melmoso delle fonti.

La poesia è dunque (come in Quasimodo) il canto dell’impossibile ritorno alla luce delle origini, alla perfetta consonanza dell’uomo solo con se stesso: Credevo di essere riapprodato, uomo solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza: quando nell’estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un luogo, che mi fingevo remoto e inaccessibile, di alberi e d’acqua; e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e infinitamente, alla libertà del presente. Ma è illusione – rêverie o ricordanza – di breve durata. Anche nella vacanza, nello svago o nel silenzio di una mattina d’estate, in un convento nascosto tra le falde di un vulcano, il male e la morte sono in agguato.

Sciascia abbandona la poesia perché non gli consente di realizzare appieno la sua missione di scrittore, ovvero riscattare l’ingiustizia – e l’ingiustizia più grande, che è la morte attraverso la sentenza, la morte attraverso la scrittura (di Diego La Matina, di Di Blasi, di Moro). Davanti allo strazio della morte invece, davanti al mistero della morte generale e della propria particolare, la scrittura, sia essa racconto o poesia, inevitabilmente s’arrende. Sin dall’inizio Sciascia osserva l’inavvertito cagliare della vita, la morte che lentamente si coagula nel corpo di un uomo, si fa gelida forma. Fino all’ultimo sogna di raccontare il morire, la morte come esperienza. Invano. Se non ha raccontato la morte – eppure come in una folgorazione ha visto quella del Vice (Pensò: che confusione! Ma era già, eterno e ineffabile, il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta) – l’ha pensata accettata vagheggiata in ogni attimo della sua vita: nonché un pensiero, diceva Savinio, la morte è il pensiero stesso.

Sentendola avvicinarsi, ha moltiplicato gli autoritratti, di tre quarti, in controluce, di sbieco. Autoritratti di un siciliano “buono”, che incidentalmente ha scritto, “continuando” Stendhal, “continuando” Manzoni. Come Majorana, come tutti i siciliani migliori, Sciascia non era portato a far gruppo: aveva invece l’avversione al gregge e il gusto della solitudine al tempo stesso amata e sofferta. Come tutti i siciliani – a detta di Cicerone gente d’ingegno acuto e sospettoso, nata per le controversie – Sciascia amava contraddirsi e contraddire. Come Stendhal, aveva la paura del ridicolo. Come Manzoni praticava l’ironia e l’autoironia, e raramente falliva un colpo (sono stato, fino a qualche anno fa, un buon tiratore: con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di un fiammifero). Come molti siciliani, superando il rapporto di inimicizia avuto col padre durante l’adolescenza, era diventato un uomo piuttosto “paterno” (di punto in bianco ci si accorge, quasi vedendosi in uno specchio, che “si” assomiglia al padre, che “si” ripete la sua esistenza). Si era così scoperto un secondo padre: Luigi Pirandello. Come molti siciliani preferiva vivere nel suo paese, dove ci si conosce tutti, dove chiunque può essere se stesso, dove quindi si è al riparo dal pirandellismo latente dell’esistenza.


Come tutti i siciliani diffidava del futuro. Come la gente del popolo aveva precisa coscienza della fragilità e reversibilità dell’ascesa sociale: Sento in me come un nodo di paura. Tutto mi sembra affidato alla carta che si scopre. Per secoli uomini e donne del mio sangue hanno faticato e sofferto, hanno visto il loro destino specchiarsi nei figli. [...] Ad un momento, ecco il punto buono, ecco il capomastro, l’impiegato; e io che non lavoro con le braccia e leggo il mondo attraverso i libri. Ma è tutto troppo fragile, gente del mio sangue può tornare nella miseria, tornare a vedere nei figli la sofferenza e il rancore. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà questo nodo di paura. Come molti siciliani s’è difeso con l’arma dello scetticismo che non è l’accettazione della sconfitta, ma il margine di sicurezza, di elasticità, per cui la sconfitta – già prevista, già “ragionata” – non diventa definitiva e mortale.

L’unica sconfitta cui non ha guardato con scetticismo ma con un’ultima, suprema curiosità intellettuale, è stata l’ultima, mortale e definitiva. E come tale, non più sconfitta. Aveva talora sognato di morire lontano dalla Sicilia, lontano dall’Italia, a mo’ di compensazione per il fatto di esserci nato. È morto in Sicilia (a Palermo), ed è stato sepolto nel suo paese, a Racalmuto, dove i carri neri dei morti sfilano accanto a finestre e porte chiuse, ad implorarli / di passar oltre, di dimenticare / le donne affaccendate nelle case, / il bottegaio che pesa e ruba, / il bambino che gioca e odia... Lui invece il ricordo di questa terra ha voluto portarselo con sé: Ce ne ricorderemo, di questo pianeta. E noi ce ne ricorderemo, di Leonardo Sciascia.

Non si è par ato delle donne, di Dio, dei preti, del cinema, della mafia, del terrorismo, della Spagna, del teatro, della pittura, del mare e dei treni. Sarà per un’altra volta.



[NOTA BIO- BIBLIOGRAFICA]

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 1921 - Palermo, 1989), maestro elementare e funzionario della Pubblica Istruzione tra il 1949 e il 1970. Prime pubblicazioni sin dagli inizi degli anni Cinquanta (una raccolta di poesie, un volumetto di favole, primi racconti su riviste), ma l’esordio “vero” è segnato da Le parrocchie di Regalpetra (1956), seguite da Gli zii di Sicilia (1958). La vena narrativa, cui si devono capolavori come Il Consiglio d’Egitto (1963) e Il contesto (1971), verso la metà degli anni Settanta sembra esaurirsi (Todo modo è del 1974) o comunque sfociare in una poetica del “riscrivere” (Candido, 1977). Sciascia reinventa il libro-inchiesta, sul modello della Storia della colonna infame (genere per altro già magistralmente sperimentato con La morte dell’inquisitore e La scomparsa di Majorana): escono così I pugnalatori (1976), L’affaire Moro (1978), Dalle parti degli infedeli (1979). Solo dieci anni dopo, nel 1987 con Porte aperte, Sciascia ritorna al racconto e non lo abbandona più fino alla morte ormai prossima. Tra i suoi ultimi libri spiccano due densi racconti di “fine partita”: Il cavaliere e la morte (1988) e Una storia semplice (1989).

Importante anche l’attività editoriale (Sciascia ha diretto le riviste «Galleria» e «Nuovi Argomenti», è stato a lungo consulente della Sellerio) e l’impegno politico, prima a livello comunale a Palermo (tra il 1975 e il 1977, nelle liste del P.C.I.), poi a livello nazionale ed europeo (nelle liste del Partito Radicale, tra il 1979 e il 1983).

Si rimanda all’edizione in tre volumi delle Opere (a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani, 1987-1991), purtroppo mancante delle due interviste La Sicilia come metafora (con Marcelle Padovani, del 1979) e Conversazione in una stanza (con Davide Lajolo, del 1981), imprescindibili per un approccio a Sciascia.

L’opera omnia è in corso di ristampa presso Adelphi (Milano).

Da segnalare la preziosa attività (anche editoriale) dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia (http://amicidisciascia.merlinwizard.it ).

 

in: «EnnErre. Le nostre ragioni», IX, nr. 17, Milano 2002, p. 16-22

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